ARBOS
ARBOS
PIACENZA 1947 – 1957

Il marchio “Arbos biciclette e accessori" venne depositato a Piacenza, su iniziativa del meccanico Araldi, nel 1947. Araldi aveva bottega in Via Cavour 41 insieme al socio Boselli. Arbos è quindi l’acronimo dei due soci fondatori mentre Il marchio è una foglia d’Edera verde in campo avorio, simbolo di eternità. Per l’epoca le Arbos erano biciclette all’avanguardia, sia per la costruzione del telaio che per la componentistica.

1949 ammiraglia Arbos al 32° Giro d'Italia, il DS Mario Giumanini, Logli, Zanazzi, Casellucci, Paolieri e Volpi.
Inizialmente la Arbos sorgeva presso la ditta di Boselli, in via Benedettine, dove però non si fabbricavano i telai ma ci si limitava alla fase di assemblaggio. Alla fine del 1946 cominciò l’attività anche l’omonima equipe ciclistica, in un’epoca in cui tutte le formazioni professionistiche erano sponsorizzate dalle più importanti industrie del settore, come Bianchi, Atala e Benetto, per citarne alcune. Il quotidiano “Libertà” del 1° marzo 1947 titola “L’Arbos prima squadra iscritta a Sanremo” e prosegue “Ultima arrivata evangelicamente apre le iscrizioni alla Milano-Sanremo la squadra ciclistica dell’Arbos composta dagli italiani Generati, Marabelli, Nardini, Locatelli e Minorini; dai belgi Oliver, Sereu, Landayt, Decin e Stadsbaeder; dai lussomburghesi Diederich, Kirchen e Goldshaudt. L’Arbos non conosce indugi. Alla squadra chee difende i colori piacentini il nostro schietto augurio”.
Un deciso cambio di passo nella gestione societaria si ebbe intorno al 1949, con l’ingresso dell’ingegner Luigi Lodigiani, un importante industriale meccanico piacentino.
Lodigiani trasferì l’attività in via Cornelio Musso (San Lazzaro), nel complesso occupato dalla Bubba, azienda già di sua proprietà che fabbricava macchine agricole. La società assunse dunque la denominazione di Arbos-Bubba. In seguito il ramo produttivo delle biciclette tornò nel centro di Piacenza, in via delle Fornaci, per poi chiudere definitivamente nel 1957. Intanto, dalla ragione sociale scomparve il nome Bubba e l’Arbos proseguì la sua attività, limitata comunque alle macchine agricole, fino al 1994, quando dopo varie vicissitudini aziendali, cessò del tutto.
Parlando di Arbos non può essere tralasciata la storia della squadra professionistica (1947-1957), la prima formazione piacentina a gareggiare nella massima categoria. Il suo debutto ufficiale avvenne alla Milano-Rapallo del 1946, con alcuni corridori indipendenti (professionisti senza contratto). Iniziò così un’avventura agonistica lunga un decennio, che visse i suoi momenti più intensi in occasione delle partecipazioni al Giro d’Italia, nel quale debuttò nel 1947 sotto le insegne Arbos-Talbot.
Il primo successo di tappa arrivò già l’anno successivo per merito di Nero Logli, che si impose a Napoli battendo in volata Magni in una tappa che partiva da Bari e dopo 306 chilometri si concludeva nella città partenopea. Prima che la stagione giungesse al termine Volpi e Pezzi arricchirono il bottino concludendo al primo posto in due corse minori.
Nel 1949 il nuovo patron Lodigiani affidò a Mario Giumanini la conduzione della squadra, che da quel momento diventò una delle più importanti compagini professionistiche italiane, conquistando numerose vittorie in Italia e all’estero, grazie a campioni come lo svizzero Fritz Schaer, il toscano Primo Volpi e il laziale Bruno Monti.
Con regolarità di anno in anno giunsero brillanti affermazioni colte da più corridori, a dimostrazione della forza della squadra e la sua impostazione. Nessun leader in assoluto, ma tanti cacciatori di traguardi, specialmente passisti con quel tanto di sprint utile ad imporsi in volate non caotiche. Tra tutti va evidenziato il toscano Primo Volpi, fedelissime e vincente insieme a Bruno Monti (8 vittorie nel 1953). La stagione più felice fu senz’altro quella del 1955 con ben venti vittorie, raccolte da nove corridori.
Nel 1956 l’Arbos-Bif-Clement si presentò al via del 39° Giro d’Italia con grandi ambizioni, sostenute dall’eccellente stato di forma del suo capitano Pasquale Fornara.
In effetti, con il successo della cronometro Livorno-Lucca, il piemontese risalì in testa alla classifica, posizione che occupava ancora a sole tre giornate dal termine. Ma, nell’ultima tappa dolomitica, la Merano-Monte Bondone, accadde l’imprevedibile: sotto una vera e propria tormenta di neve, il lussemburghese Charly Gaul conquistò il traguardo in quota e la maglia rosa, mentre Fornara, vinto dal freddo e dalla fatica, si ritirò ad appena 500 metri dal traguardo. Così, in modo drammatico, svanì il sogno di portare la maglia rosa a Piacenza, e in pratica, si concluse la parabola agonistica della Arbos.

1956 Fornara con bici Arbos al trofeo Baracchi
1947 ARBOS TALBOT
Bosi, Burghi, Giacomelli, Giovannoni, Lazzarinim, Delmoyle
1948 ARBOS GARDIOL
Brignole, Brotto, Giovannoni, Lambertini, Lazzerini, Loatti, Logli, Paolieri, Pezzi, Toccaceli, Volpi
1949 ARBOS GARDIOL
Castellucci, Lazzaroni, Logli, Paolieri, Pontino, Toccaceli, Volpi, Zanazzi V.
1950 ARBOS TALBOT
Bernardi G., Castellucci, Coppini, Dordoni, Isotti, Nannini, Pagliazzi, Pontisso, Roggi, Tosi, Volpi, Zanazzi M., Zanazzi R., Kamber, Schaer
1951 ARBOS GARDIOL
Bernardi, Castellucci, Dordoni, Frosini, Isotti, Moresco, Nannini, Pagliazzi, Pontisso, Volpi, Zampieri, Zanazzi R., Schaer
1952 ARBOS PIRELLI
Assirelli Dordoni, Isotti, Lambertini, Moresco, Pontisso, Rosello Vinc.m Volpi, Schaer
1953 ARBOS TALBOT
Assirelli, Ciancola, Frosoni, Gestri, Monti, Moresco, Volpi
1954 ARBOS GARDIOL
Assirelli, Frosoni, Ganneschi, Monti, Pezzi, Ponzini, Volpi
1955 ARBOS PIRELLI
Assirelli, Baldarelli, Ciancola, Corrieri, Dall’Agata, Ganneschi, Giusti, Marmocchia, Nascimbene, Salviatto, Sartini, Ponzini
1956 ARBOS BIF CLEMENT
Assirelli, Bertoglio, Ferlenghi, Ferrari, Fornara, Giiudici, Modena, Pasotti, Pezzi, Ponzini
1957 ARBOS BIF CLEMENT
Assirelli, Frosoni, Ganneschi, Monti, Pezzi, Ponzini, Volpi

1956, Fornara in azione con la maglia Arbos BIF Clement

1956, Fornara in Maglia Rosa al Giro d'Italia

1956, la squadra Arbos BIF Clement tra i partecipanti italiani al Tour de France

1956, Fornara al Tour de France in maglia Arbos

1956, la squadra Arbos al completo

1956, Fornara in azione con la maglia Arbos BIF Clement

La bici da pista Arbos "C P 032" di Enzo Sacchi.
Il corridore Enzo Sacchi vinse la medaglia d'oro nello Sprint alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 con una bicicletta pista Arbos.
Il giorno dell'evento riportava la livrea con il marchio Piacentino, poco tempo dopo fu rimarcata in LYGIE nell'ambito di un accordo di sponsorizzazione.
Sacchi, che tra i vari traguardi vinse il Campionato del Mondo Sprint nel 1951 e nel 19552, fu molto amato a Firenze, città che dedicò il “Velodromo Enzo Sacchi” come monumento alla sua carriera.
Da notare l’attacco del manubrio Cinelli particolarmente profondo. Dopo i successi di Sacchi nei primi anni Cinquanta, questo modello con 58° di inclinazione fu battezzato “Sacchi” nei cataloghi del decennio successivo.

1952, Enzo Sacchi con la bici da pista Arbos

Arbos reparto corse 1956
Le biciclette costruite per la squadra corse Arbos nel 1956 si distinguevano da quelle prodotte in serie dal design della congiunzione nodo sella e dalle testa delle pendine, simili a quello usate da Cinelli ma leggermente diverse, probabilmente prodotte dalla Agrati e non dalla svizzera Fisher.


1956, Fornara con una bici della squadra


1956, Rebour illustra il nodo sella delle bici Arbos usate al Tour de France sulla rivista "Le Cycle"


Seriale C01400 - 1956, Arbos squadra corse, conservata. Foto Marcello Ottola.
VISCONTEA
VISCONTEA
Milano 1937 – Primi anni ’50

La Viscontea, fondata a Milano nel 1937 da Tamassia, fu uno dei più importanti marchi costruttori di biciclette italiani dalla fine degli anni ’30 ai primi anni ’50. La squadra professionisti fu attiva per ben 11 anni con importanti vittorie sia ai grandi Tour che nelle singole competizioni. Dalla metà degli anni '50 il marchio è passato di proprietà diverse volte ma senza la qualità che caratterizzò il primo periodo storico. Dal 1941 al 1945 i telai erano costruiti da Faliero Masi sotto la direzione di Fiorenzo Magni.


1941, Aldo Bini vince il Giro del Piemonte con la Viscontea
al 1941, finita l’esperienza fiorentina, Faliero Masi accettò l’invito dell’amico Aldo Bini di trasferirsi a Milano per costruire le biciclette della squadra Viscontea allestendo le bici di Bini, Ronconi, Bailo e Cottur. In quegli anni l’azienda era una nuova realtà sul mercato e necessitava di visibilità anche attraverso le più importanti competizioni sportive. La collaborazione di Masi alla Viscontea si interruppe quando Faliero viene chiamato alle armi allo scoppio della seconda guerra mondiale. In quei pochi anni, grazie all’esperienza acquisita Firenze e allo studio delle macchine costruite dai maestri del passato come quelle di Dei, Masi alla Viscontea intraprese la maturazione della sua personale concezione di bicicletta, con nuove idee e soluzioni per un telaio più leggero e performante.
La squadra professionisti Viscontea fu fondata nel 1940 e rimase attiva fino al 1951, partecipando al Giro d’Italia già dal ’41. Nel corso di 10 anni ha visto nelle proprio file ciclisti del calibro di Osvaldo Bailo, Aldo Bini, Aldo Ronconi, Renzo Zanazzi, Mario Ricci, Glauco Servadei, Antonio Bevilacqua, Mario Vicini, Giordano Cottur, Serafino Biagioni, Elio Bertocchi, Cesare Del Cancia, Olimpio Bizzi, Fiorenzo Magni, Mario Ricci e Dante Rivola. Tra i dirigenti Leargo Guerra, Gaetano Belloni.
Fra i successi più importanti ricordiamo 7 vittorie di tappa al Giro d’Italia, una vittoria al Tour de France 1946, Giro del Piemonte 1941, il Giro del Lazio 1942, il Giro di Romagna 1943 e la Tre Valli Varesine 1947, Tre Valli Varesine 1947, Coppa Bernocchi 1949. Le biciclette avevano una livrea argento con fasce gialle, mentre la divisa della squadra era blu con fascia gialla.

1947, lo stand Viscontea al Salone del Ciclo di Milano
1941
Direttore sportivo, non conosciuto
Osvaldo Bailo
Primo Bergomi
Aldo Bini
Giordano Cottur
Salvatore Crippa
Cesare Del Cancia
Luigi Augusto Introzzi
Aimone Landi
Pietro Rimoldi
Carlo Romanatti
Aldo Ronconi
1947
Direttore sportivo Gaetano Belloni
Primo Bergomi
Elio Bertocchi
Bizzi Olimpio
Pierre Brambilla
Giovanni Corrieri
Giovanni De Stefanis
Mario Fazio
Adriano Lugatti
Fiorenzo Magni
Petrocchi Giuseppe
Giovanni Ronconi
Glauco Servadei
Francis Lucien Teisseire
1948
Direttore sportivo Gaetano Belloni
Aldo Baito
Primo Bergomi
Bizzi Olimpio
Elvio Busancano
Severino Canavesi
Giovanni De Stefanis
Ugo Fondelli
Dino Lambertini
Mauro Lugatti
Mauro Monti
Danilo Montobboio
Ubaldo Pugnaloni
Giovanni Ronco
Riccardo Sarti
Glauco Servadei
Louis Thietard
Quirino Toccaceli
Aldo Tosi

Cino Cinelli con Olimpio Bizzi in maglia Viscontea, ca. 1947

1947, Concorso a premi Motta Viscontea

1941 illustrazione con le principali squadre dell’anno, la Viscontea è la prima dall’alto

1941, il libretto di lavoro di Faliero Masi timbrato dalla Viscontea

1942 annuncio pubblicitario Viscontea

1946 annuncio pubblicitario Viscontea


MAGNI CHIORDA
MAGNI CHIORDA
Bergamo 1960 – 1962
Fonti: Paramanubrio, ricerca archivistica

Nonostante la Magni Chiorda abbia lasciato un segno importante nella storia del ciclismo grazie ai traguardi raggiunti dalle squadre G.S. Philco (1960-1962) e G.S. Salvarani (dal 1963 al 1965), poche sono le informazioni disponibili sull'azienda e sull'aspetto tecnico di costruzione dei telai. In questo articolo vengono illustrati i tratti fondamentali del marchio e delle biciclette da corsa Magni Chioda negli anni 1960, 1961 e 1962, gli anni successivi sulla squadra Chiorda Salvarani verranno trattati e integrati in futuro (o almeno ci proveremo).

1961 Giro d’Italia, Giacomo Fini, Arrigo Padovan e Adriano Zamboni

1961 Èmilie Daemes vince la Milano Sanremo per il G.S. Philco su bici Magni Chiorda.
Erano i primi anni del ‘900 quando ad Albino (Bergamo) i tre figli del farmacista Carlo, Vito, ed Ettore Chiorda fondarono la Cicli Chiorda. Nel 1906 il giovane corridore dilettante Ettore, su una bicicletta uscita dalla propria officina, vinse il campionato sociale UCB, in seguito gareggiò alla pari contro campioni come Giovanni Gerbi e Costante Girardengo e partecipò al Giro d’Italia del 1922.
Nel 1906 il giovane corridore dilettante Ettore Noris Chiorda su una bicicletta uscita dalla sua officina vince il campionato sociale UCB, in seguito gareggerà contro campioni come Giovanni Gerbi e Costante Girardengo e parteciperà al Giro d’Italia del 1922.
La produzione era inizialmente ad Albino, Il campanile che compare nei primi marchi Chiorda è, infatti, quello di Piazza Vittorio Veneto a Bergamo. Nel 1960 la Chiorda divenne proprietà di Angelo Trapletti, industriale bergamasco che in seguito acquisirà anche la Bianchi. La produzione assunse quindi a quel tempo una dimensione industriale e venne spostata a Vigano San Martino, sempre in provincia di Bergamo.
A partire dal 1960 e fino al 1962 il top di gamma dell’azienda divenne il modello creato in sinergia con Fiorenzo Magni con il marchio “Magni Chioda Bergamo”. La produzione prevedeva sia la produzione di biciclette di serie di alta gamma che quella per il reparto corse, tutte distinte dal colore, che rimarrà caratteristico delle Chiorda, di una particolare tonalità di blu. Dal 1960 al 1962, sia per le bici di serie che quelle del reparto corse, vennero usati 2 diversi fregi (senza rivetti) di seguito Illustrati nelle immagini. Le decalcomanie riportavano il fregio e la scritta “Magni” sul tubo diagonale.
Dal 1963 al 1965 vennero mantenute le decalcomanie sul diagonale (anche se con grafica diversa) mentre il fregio (non più in metallo) riportava solo il marchio Chioda.
Dal 1962, come riportato nel catalogo ufficiale, l’azienda proponeva due modelli “specialissima per professionisti” dove a cambiare erano solo i componenti: Campagnolo Gran Sport-Univesal per il modello “Leone delle Fiandre Campagnolo” e Simplex-Mafac per il modello “Leone delle Fiandre Simplex”.
In comune per entrambi i modelli il telaio, costruito con tubi Columbus leggeri conificati e verniciatura blu Chiorda-Magni, così come il manubrio Cinelli in acciaio. Stesso binomio per le squadre Philco anche se in anni diversi, nel 1960 le biciclette dei corridori erano montate Simplex-Mafac, mentre nel due anni successivi vennero scelti componenti Campagnolo e Universal 61, anche se alcuni corridori scelsero il gruppo Campagnolo già nel 1960, il manubrio era sempre a discrezione del corridore.
L’impegno fu portato al massimo livello anche dal punto di vista tecnico-agonistico e per il ruolo di capo meccanico della squadra fu chiamato Ernesto Colnago. Dal 1960 il telaista Piero Piazzalunga si dedicava alla linea delle specialissime e fece il suo esordio nelle corse proprio con la squadra Philco. Successivamente meccanico della squadra Salvarani, Piazzalunga collaborò con alti maestri costruttori del tempo come Giuseppe “Pinella”, fu a lungo meccanico della nazionale e lavorò al seguito della squadra Bianchi per molti anni così come alla Augustea e alla Mapei di Bugno. Ritiratosi dalle competizioni aprì il proprio marchio di biciclette. Telai Magni Chiorda del 1961 così come altri databili metà anni ’60 furono costruiti dal telaista Artide di Faenza, artigiano poco conosciuto ma, alla luce della qualità dei telai costruiti per la Chioda, sicuramente di grande talento.
Come accadeva usualmente in quel periodo, le bici dei corridori non erano tutte prodotte materialmente dallo stesso costruttore, nel caso della squadra Philco i Volta di Milano o Artide di Faenza. Per le loro biciclette i corridori della squadra potevano servirsi dei telaisti di loro fiducia (come ad esempio Masi, De Rosa, Colnago, Mondonico o Marnati) mantenendo il minimo set di congiunzioni del marchio bergamasco (ad esempio la testa forcella).

1961 Ernesto Colnago (primo a sinistra) meccanico della squadra Magni Chiorda Philco.
In quei due anni, così come in seguito, l’impegno agonistico del nuovo marchio fu portato al massimo livello con la squadra Philco, gestita da Fiorenzo Magni, insieme a Giorgio Albani e Luigi Sardi quali direttori sportivi, squadra equipaggiata ovviamente con biciclette Magni Chioda. Per tre anni la G.S: Philco partecipò alle grandi classiche così come al Giro d’Italia e al Tour de France. Fecero parte della squadra corridori come Van Est Wim, Guido Carlesi, Franco Bittossi, Émile Daems, Ferdinando Terruzzi, Vittorio Adorni.
Principali traguardi raggiunti dalla squadra: 7 vittorie di tappa nei Giri d’Italia dal 1960 al 196’ con Emile daexm, Silvano Ciampi, Guido Carlesi e Vittorio Adorne. Altri risultati: Giro della Lombardia: Emile daem (1960 ) / Giro dell’Appennino: Emile daem (1960) / Tour della Provincia di Reggio Calabria: Guido Carlesi (1960) / Premio Nazionale di Chiusura: Emile daem (1960) / Piemonte Giro: Alfredo Sabbadin (1960) / Gran Premio Industria e Commercio di Prato: Alfredo Sabbadin (1960)
1960
Direttore sportivo Fiorenzo Magni e Albani Giorgio
Adriaensens Cesar Jan
Aru Ignazio
Brankart Jean
Carlesi Guido
Ciampi Silvano
Daems Emile
Fini Giacomo
Graf Heinz
Ippoliti Amico
Luise Rino
Marsili Vinicio
Maule Cleto
Rusconi Domenico
Sabbadin Alfredo
Sabbadin Arturo
Schweizer Erwin
Taddeucci Dullio
Van Est Wim
1961
Direttori sportivi Fiorenzo Magni e Luigi Sardi
Bitossi Franco
Carlesi Guido
Chiarini Vittorio
Ciampi Silvano
Cogliati Ottavio
Daems Émile
Falaschi Roberto
Fini Giacomo
Gaiardoni Sante
Graf Rolf
Ippoliti Amico
Lenzi Guerrando
Luise Rino
Marsili Vinicio
Michielis Guillaume
Monanelli Paris
Mortiers Georges
Musone Pietro
Pinarello Cesare
Sabbadin Alfredo
Sabbadin Arturo
Sacchi Enzo
Sensi Giovanni
Tonoli Gaudenzio
Vigna Marino
Zancanaro Giorgio
1962
Direttori sportivi Fiorenzo Magni, Luigi Sardi e Jean Vergucht
Adorni Vittorio
Bitossi Franco
Brugnami Carlo
Carlesi Guido
Chiarini Vittorio
Ciampi Silvano
Cogliati Ottavio
Conti Noe
Daems Émile
Falaschi Roberto
Gaiardoni Sante
Haleterman Willy
Hoevenaers Joseph
Marsell Karl-Heinz
Michielis Guillaume
Perinissotto Giuseppe
Pinarello Cesare
Pizzali Virginio
Sacchi Enzo
Sivilotti Pidutti Bruno
Terruzzi Ferdinando
Tonoli Gaudenzio
Vellucchi Nello
Vigna Marino
Zancanaro Giorgio
La collaborazione tra Chioda e Magni continuò negli anni successivi anche con la squadra Salvarani (negli anni dal 1963 al 1966, 1970 e 1971), un gruppo leggendario composto da campioni del calibro di Adorni, Pambianco, Gimondi, Motta, Zandegù, Altig e Basso (che su una Chiorda vinse il Campionato del Mondo del 1972), primeggiando sia nelle grandi classiche che nei Tour.
In genere le biciclette della Salvarani, anche le Chiorda, venivano dal Reparto Corse della Bianchi, il quale spesso si limitava alla sola verniciatura, al montaggio dei componenti e all’apposizione del marchio su telai realizzati da telaisti di fiducia del corridore.
La Salvarani corse anche sotto al marchio Bianchi (1967-1969), con il marchio “Magni Chiorda” Gimondi vinse il Giro d’Italia nel 1965 e la Parigi Roubaix e il Giro di Lombardia l’anno successivo, Basso vinse il Campionato del mondo nel 1972. Hanno realizzato telai per la Salvarani De Rosa, Colnago e Masi, ma quella della Salvarani-Chiorda è una storia che racconteremo in un capitolo a parte, qui ci limitiamo al periodo di produzione di bici da corsa di alta gamma del periodo 1960-1962 legato alla squadra Philco.

1962 Adorni e Balmamion al Giro d’Italia

1961 la squadra Philco con i direttori sportivi Sardi e Magni

1962 la Philco al Tour de France

1962 Giro Modena-Apricam Adorni in fuga verso Aprica
Magni Chiorda reparto corse del 1961, conservata.
Telaio probabilmente costruito con tubazione Falk da Gilardi o Artide di Faenza,
vedi comparazione sotto.
Foto Frameteller. Galleria completa qui.
MEDICI
LA QUESTIONE MEDICI
LOS ANGELES CALIFORNIA,
ca 1976 – 1978
Fonti: Quello che segue è la testimonianza di Jim Cunningham sulla vicenda Medici, disavventura che visse come amico e socio di Confente in quegli anni. Il testo è estrapolato dalla raccolta di messaggi che richiamano e discutono la storia del marchio Medici inseriti nella mailing list del forum Classic Rendezvous da varie persone, inclusi testimoni oculari come Brian Baylis, Jim Cunningham e Ted Kirkbride.
Qui la ricostruzione integrale della vita di Mario Confente.
Dalla lettera di Jim Cunningham a Classic rendezvous, 24 febbraio 2001
Ultimamente non sono stato molto attivo su CR (Classic Randezvous) perché sto cercando di concentrare il mio tempo di scrittura sul completamento del mio libro su Mario Confente. A causa della svolta che ha preso la lista di CR su questo argomento ho deciso di condividere su questo testo, il cui contenuto è basato sulla realtà, anche se romanzato. Parti chiave della storia parlando della storia del marchio Medici insieme ad parti che Brian “non conosce”.
Il testo non è estrapolato dal libro, ma espone i fatti. Accolgo con favore qualsiasi contributo, soprattutto fatti e aneddoti che coinvolgono Mario o altri legati alla sua storia. Per favore mandameli in privato perché ultimamente non sto al passo con il post su CR. Raramente ho condiviso questa storia perché sento che debba essere raccontata in modo dettagliato e preciso. Inoltre trovo difficile parlarne senza mettere alcune persone in una luce negativa, qualcosa che preferisco evitare, ma penso che sia necessario avere una certa comprensione dei personaggi e delle motivazioni per capire cosa è realmente accaduto.
Ho lavorato con Mario Confente dal suo ultimo anno alla Masi, 1975-76; l’ho aiutato ad avviare Bicycles by Confente e ho continuato a lavorare a stretto contatto con lui fino alla sua morte il 12 marzo 1979. La Masi Bicycle Company era ancora nella sua sede originaria negli Stati Uniti, una struttura spaziosa e moderna con vista sulle splendide spiagge di Carlsbad in California. Il proprietario era “Novo Riche” un imprenditore di successo texano trapiantato di nome Roland Sahm, il quale aveva sovrastimato il potenziale di profitto della produzione di Masi negli Stati Uniti. Il picco del boom delle “dieci velocità” degli anni ’70 era ormai passato, la crisi del gas non aveva convinto gli americani a scambiare i loro pedali del gas con i quelli della bicicletta. E la cosa peggiore fu che Falierio Masi vendette in eccesso la capacità produttiva della sua attività “trascurando” di menzionare il suo ampio ricorso a terzisti come Confente. Di conseguenza, Sahm ridusse il propio ambizioso piano che includeva anche un velodromo sul mare sito nei locali dell’azienda.
Il direttore era un contabile baffuto di cui non ricordo il nome, la cui unica preoccupazione erano le finanze di Sahm. Né Sahm né il suo contabile sapevano una sola cosa sulle biciclette. Si diceva che l’obiettivo della società in quel momento fosse quello di perdere una certa somma di denaro, al fine di compensare i considerevoli profitti delle altre imprese di Sahm. Le visite mensili di Sahm di solito si concludevano con decisioni inspiegabili e dubbie che venivano spesso revocate il mese successivo dopo che il danno era stato fatto. Era chiaro a tutti noi che lavoravamo lì che c’era un problema con il top management dell’azienda Masi Carlsbad. Falierio era tornato in Italia per godersi i profitti della sua trattativa con Sahm, così come erano rimpatriati anche gli altri italiani che erano venuti con lui per organizzare l’operazione, tutti tranne Mario Confente.
Nelle abili mani di Mario, una troupe di 12 persone, incluso un pittore, produceva raffinati telai. La maggior parte del lavoro consisteva nel limare le congiunzioni, le scatole del movimento centrale in ghisa e nel bordare e modellare le congiunzioni prima del impuntatura sulla maschera e della brasatura. La passione di Mario Confente per il suo mestiere e la sua straordinaria abilità e velocità hanno ispirato il team. Il risultato furono biciclette di serie che rivaleggiavano con quelle made in Italy. Il suo comportamento tranquillo e le sue scarse capacità di lingua inglese lo portano a insegnare attraverso l’esempio pratico. Questo a volte ha portato a dibattiti come “perché farlo in quel modo”, ma attraverso l’esperienza dirette in genere capivamo la saggezza dietro alle sue tecniche di lavoro.
Alcune persone furono scoraggiate dalla forte personalità di Mario, la sua autostima poteva infatti sembrare egocentrica. Aveva quella spavalderia italiana da giovane maschio. Molti di quelli che lo hanno conosciuto, tuttavia, hanno amato la sua integrità e dedizione al suo mestiere. Due degli eroi di Mario erano John Wayne e Rocky Balboa. Ammirava la loro determinazione e l’onestà del duro lavoro. Credeva anche nell’America come patria degli uomini liberi e pensava che gli offrisse l’opportunità di controllare il proprio destino, cosa che gli era stata negata in Italia.

Roland Sahm e Mario Confente
Un giorno Gian, portando scatole da imballaggio, andò a sbattere contro Mario che stava assemblando congiunzioni appena limate e tubi obliqui. Il taglio risultante nella mano di Mario sembrava pericolosamente profondo. Lo portai dal dottore e così avemmo la possibilità di parlare a lungo. Mario mi disse di non aver mai voluto gestire un’attività così grande, che voleva tornare in un negozio più piccolo dove poteva controllare il proprio destino. Masi lo aveva indotto con l’inganno a lasciare la sua piccola bottega a Verona, e gli mancava. Ma l’Italia non gli mancava.
Amava la California e la sua nuova fidanzata bionda Lisa. Pensava che ci fosse una grande opportunità per le biciclette professionali negli Stati Uniti, ma non sapeva come iniziare. Gli dissi che avrei aiutato. Avevo la mia piccola impresa prima di entrare in Masi. Poiché nessuno di noi aveva alcun capitale per avviare il proprio negozio, discutemmo della fattibilità di iniziare in piccolo ma i costi minimi per l’attrezzatura, l’affitto e i materiali erano comunque al di là delle nostre possibilità. Io avevo alcuni risparmi ma Mario aveva mandato tutti i suoi guadagni a casa per aiutare il padre e le sorelle disabili. A meno di non poter risparmiare di più, gli dissi, avremmo avuto bisogno di un business plan da mostrare alle banche per ottenere un prestito SBA o qualche altra forma di sostegno.
Scrissi un piano aziendale completo concordammo una partnership. Fin dall’inizio ci era chiaro lo scarso potenziale di profitto di un’attività del genere, ma i soldi non erano importanti, eravamo determinati a costruire le migliori biciclette. Nel frattempo, anche se la politica e gli intrighi alla Masi stavano diventando pesanti, ci accontentammo di lavorare lì mentre costruivamo il nostro piano di uscita. Come poi si è scoperto, il tempo a nostra disposizione fu molto breve. Quando Bill Recht visitò per la prima volta la struttura della Masi, era uno dei 20 uomini più ricchi degli Stati Uniti.
La sua residenza principale si affacciava su Central Park a New York, dove girava con le migliori biciclette che il denaro potesse comprare. Era nato nell’impero di suo padre, le cui radici erano nei nightclub e nella boxe dell’era del proibizionismo. Bill aveva studiato legge e diversificato i beni di suo padre. A quei tempi era un uomo spietato, potente e solitario di circa 55 anni. Ho incontrato per la prima volta Bill Recht quando entrò nella cabina di verniciatura Masi. Rendendosi conto che quello era l’unico posto in cui avrebbe potuto parlare con un dipendente Masi senza essere osservato o sentito, mi disse che intendeva acquistare l’azienda. Voleva conoscere la “storia interna” dell’azienda dal punto di vista di un dipendente. Propose di incontrarmi per cena e discuterne. La mia speranza era che la Masi USA potesse essere risollevata da un nuovo proprietario che usasse e avesse passione per le biciclette. Ebbi molti altri contatti con Recht durante le trattative per l’azienda. In uno di questi incontri, mi disse, e cito: “Dopo mesi di discussioni sulla vendita, sono volato qui per concludere l’affare e quando la mia penna ha colpito il giornale, Sahm ha ritirato l’atto di vendita e ha detto” la Masi Bicycle Company non è in vendita. Ho chiesto cosa intendesse, aspettandomi che mi spremesse per altri 50 mila dollari, invece ha ripetuto che non è in vendita… A TE”.
Anni dopo, seppi che il contratto con Falierio Masi era un contratto di locazione non trasferibile di 99 anni e come tale, Roland Sahm, non avrebbe mai potuto vendere l’azienda anche se lo avesse voluto. Forse Sahm pensava di poter rinegoziare l’accordo con Falierio e stava cercando un’offerta. Qualunque fosse l’intento, Recht, sfacciato, arrogante e sboccato, aveva perseguito duramente la trattativa, solo per venirne via con un rifiuto personale. Era chiaro che Recht meditava una vendetta. Mi disse specificamente che intendeva assumere tutti i professionisti al di fuori della Masi e costruire una società di biciclette che l’avrebbe seppellita, per ricomprarne ciò che restava dopo averla distrutta. Tuttavia c’era un problema, mi confidò Recht: a differenza di altri dipendenti, Mario Confente sembrava disinteressato al suo piano.
Mario aveva chiarito che non sarebbe entrato in una nuova azienda come la Masi se avesse dovuto lavorare con alcune delle persone che Recht intendeva assumere. Il capo di queste persone era Gian Simonetti, il quale era per Mario un disonesto bravo solo con a parole. Non fu una sorpresa, poiché Gian era stato assunto principalmente per le sue capacità di traduzione.
All’epoca Gian era alla MASI di Carlsbad, è l’anno precedente aveva solo assemblato e imballato le bici e aveva fallito miseramente nella costruzione delle ruote. Ricordo Gian che si vantava per ore, quando eravamo soli in negozio, di come poteva brasare come chiunque altro. Lo vidi in seguito rovinare orribilmente una semplice brasatura. Poiché Gian sapeva essere così affascinante ed era il più vicino all’ingresso del negozio, di solito andava incontro ai visitatori e li faceva girare per il negozio. Riuscì ad alienarsi tutti coloro che vi lavoravano recitando la parte del Maestro di Bottega. A Recht piaceva molto Gian, tuttavia, e voleva sapere se potevamo fare a meno di Mario.
Gian, mi disse, che aveva affermato di poter assumere la posizione di Mario. Come ho riso! Gli suggerii che il ruolo più adatto per Gian poteva essere nelle vendite e forse Mario avrebbe preso in considerazione scelta se Gian fosse stato bandito dal negozio dove le sue vanterie e le sue distorsioni danneggiavano il morale della squadra che lavora sodo. Il giorno dopo, il contabile della Masi annunciò che era stata presa la decisione di chiudere lo stabilimento di Carlsbad. La maggior parte del personale fu licenziato. Poiché il lavoro in corso doveva essere finito, io rimasi a dipingere i telai rimanenti e Gian a montarli e imballarli.
Questo accadde quando Albert Eisentraut arrivò per misurare i telai per il subappalto. Recht mi chiamò a casa. Era preoccupato che la squadra potesse disperdersi. Sapeva di aver bisogno delle persone giuste per sopraffare il nome Masi, che non poteva comprare. Non era riuscito a convincere Mario ad accettare di entrare nella sua nuova società. Mi disse di aver offerto a Mario “più soldi di quanti chiunque guadagni costruendo biciclette“. Era stupito che Mario fosse rimasto impassibile alla sua offerta.
Gli chiesi se si aspettava di guadagnare con le biciclette e si prese beffa di me, “come azienda“, disse “le biciclette sono senza speranza“. Si vantava di possedere una dozzina di attività che guadagnavano milioni ogni anno. Il suo interesse per le biciclette era strettamente un hobby. In questo almeno sembrava sincero. Essendo cresciuto nel New Jersey, discutemmo dei percorsi e dei negozi preferiti. Almeno era un vero ciclista. Quindi, gli suggerii di considerare un’impresa più piccola e di sostenere Mario nella sua stessa operazione. Gli mandai il nostro business plan. Avevamo bisogno di $ 20.000 che lui li definì “spiccioli”.
Nel febbraio 1976, Bill Recht accettò di fornire i soldi iniziali per l’avvio della ”Custom Bicycles by Confente” e fornì uno spazio gratuito per l’affitto nei locali di una società di proprietà della Recht, Plexicraft, a Los Angeles. Non ci sarebbero stati interessi dovuti sul denaro prelevato dal conto e nel caso di saldo negativo del conto dopo due anni, l’accordo sarebbe stato rivisto mentre se ci fosse stato un bilancio positivo, saremmo stati liberi di guidare l’azienda dove avremmo scelto. (Fuori da Boyle Heights, di sicuro!) Eravamo presenti a questo incontro Mario, io e un’altra persona oltre a Bill Recht. La mia reazione era del tipo “troppo bello per essere vero” e volli che fosse messo tutto per iscritto. Mario al contrario pensava che questo avrebbe offeso Recht e mi ha fermò, voleva chiudere con una semplice stretta di mano.
Anche io e Mario non avevamo scritto un accordo di partnership, ci fidavamo l’uno dell’altro e quindi è sembrato naturale estendere quella fiducia.
Il primo passo per Mario fu andare in Italia e acquistare strumenti e forniture. I collaboratori di Recht, che avevano contatti a Los Angeles, ordinarono il forno per la verniciatura di cui avevamo bisogno, io approvai la scelta. Acquistarono anche una cabina di verniciatura marcia dai Cicli Wizard che rimisi insieme. Quando Mario tornò a Los Angeles, l’attrezzatura per la verniciatura non era ancora arrivata. Rimasi a San Diego e accettai di dipingere apparecchiature radar SBS-40 per la Marina. Un array radar è fatto da tubi in alluminio del diametro di un pollice e metallo espanso delle dimensioni di uno scuolabus. Erano state necessarie 8 ore per applicare una sola mano. Affinai le mie capacità di pittura radar di giorno e dipingevo bici Confente di notte.

Bill Recht e Mario Confente



Mentre stavamo discutendo nel merito queste strategie, Recht non ci disse che aveva già dei piani per i progetti di Mario.
La prima busta paga mensile che effettivamente ricevetti per aver lavorato presso il negozio Confente mi convinse che eravamo nei guai. Mi aspettavo che Mario avesse creato un conto aziendale appositamente per il “seed money” così da poter sempre sapere quanto fossimo vicini a “2 anni di libertà” semplicemente bilanciando il libretto degli assegni. Mario aveva un libretto degli assegni, ma Recht lo aveva “aiutato” gestendo la sua fatturazione in modo che Mario potesse concentrarsi sulla costruzione di strutture. Il problema era che le buste paga e le spese non venivano registrate da un conto Confente. Certo, il conto aveva il saldo corretto, ma Mario non si rendeva conto del significato del nome della società di proprietà di Recht sopra ai suoi assegni, in qualità di dipendente di una delle società di Recht, Mario perdeva automaticamente i diritti sulle sue invenzioni o su qualsiasi altra cosa aveva sviluppato!
Dal punto di vista di Mario, e dal mio fino a quel momento, Recht aveva investito nella nostra azienda. Ma con questo colpo di mano, Recht poteva negare il nostro accordo verbale e mostrare i registri delle buste paga che avrebbero convinto qualsiasi giudice del fatto che Mario fosse in realtà un suo dipendente. Nascosi il primo stipendio incassato il più a lungo possibile e insistetti per parlare con Bill Recht dello “stato particolare” dei conti Confente. Come al solito, ci vollero settimane per ottenere una risposta. Nel frattempo, indagai ulteriormente.
Bill Recht aveva ordinato a Chris Sohmhegi, il presidente di Plexicraft, di far lavorare Carol Moen, la segretaria personale di Sohmhegi, due ore al giorno per gestire la corrispondenza e la fatturazione della Bicycles by Confente. Pagava i conti, preparava il libro paga e trasferiva i nostri appunti scritti a mano in triplicato lettere dattiloscritte. Carol aveva lavorato per Sohmhegi per quasi 20 anni. Mi avvertì che Recht era spietato nella sua ricerca di denaro e potere. Sapevo già che le ricchezze di Bill Recht derivavano principalmente dai brevetti che controllava. Alcuni di questi riguardavano processi di stampa e materiali oscuri esplosi negli anni ’70. Inchiostri specifici per la stampa di carte di credito e la stampa in rotolo continuo come la carta per computer piegata a ventaglio. Quello che imparai da Carol è che questi brevetti e società erano stati spesso “acquisiti” da Recht in orribili conflitti che aveva sempre vinto. Carol mi parlò di tradimenti in cui Recht usò gli addetti ai lavori per respingere l’opposizione, sfide legali intelligenti che spinsero l’altra parte in bancarotta e altre forme di intimidazione. Si rifiutò di andare oltre, aggiunse solo che il suo capo, un veterano dell’esercito Cecoslovacco della seconda guerra mondiale e un manager dominante, sempre rigido e teso, non osò mai sfidare i comandi di Recht, anche quando sapeva di essere completamente contrario.
Era quindi chiaro che Recht aveva praticamente già rubato il design delle congiunzioni di Mario. Inoltre, era dubbio che avrebbe onorato il nostro accordo e probabilmente avrebbe affermato che tutti gli utensili e i profitti realizzati nei primi due anni appartenevano alla “sua” azienda.
Mario all’inizio si rifiutò di crederci. Sentiva che il nostro accordo con Recht fu così chiaro ed esplicito da non poter credere che l’uomo a cui aveva stretto la mano lo avrebbe potuto tradire in quel modo. Stavamo andando meglio di quanto ci saremmo aspettati e a quel ritmo avremmo potuto pagare Recht in anticipo. Mario pensava che fosse assurdo il fatto che Recht avrebbe potuto rubare “Biciclette personalizzate di Confente” a Mario Confente! Provai a parlare con Bill Recht di queste cose, cercai di cambiare gli account, per assicurarmi che il Copyright e i brevetti fossero a nome di Mario, ma Recht era fuori dal mondo e quando lo sentii, si rifiutò di affrontare i problemi. È chiaro che Recht fece un vero sforzo per nascondere la compagnia dei Medici a Mario e a me. Ci furono segni dei guai in arrivo. Mario non se ne accorse perché era concentrato sul suo mestiere e lasciava che Carol gestisse corrispondenza e chiamate. Ma quando arrivai, lessi tutta la posta e risposi al telefono. Girava la voce che Gian Simonetti fosse coinvolto in una sorta di azienda di biciclette. Ma ciò che mi preoccupava erano i diversi casi in cui i venditori che avevamo usato per acquistare uno strumento o una piccola quantità di forniture mi contattavano per richiedere il pagamento per diversi strumenti o una maggiore quantità di forniture. Era estremamente raro che potessi contattare Recht per telefono per segnalare questi problemi di fatturazione, le poche volte che lo feci, mi dissero di inoltrargli qualsiasi cosa in modo che la “sua gente” potesse affrontare la questione.
Ci disse che si trattava di un errore, di una truffa o di un acquisto effettuato per la sua società di distribuzione. Non dimenticherò mai il giorno in cui scoprii i suoi imbrogli, il 10 novembre 1977. Avevo bisogno di più adesivo per le decalcomanie e mi fermai alla tipografia per ritirarle. Pensavano che fossi lì per ritirare le decalcomanie per “l’azienda di biciclette” e così mi diedero un pacco e una fattura. Erano decalcomanie “Medici” e l’indirizzo di fatturazione era l’ufficio di Recht nel New Jersey, mentre quello per la consegna era nelle vicinanze.
Li consegnai personalmente. All’indirizzo trovai Gian Simonetti, era sorpreso di vedermi e molto nervoso. Provai a fare due chiacchiere, ma John “doveva andare” e fui immediatamente portato fuori dal negozio. Quando tornai dissi a Mario cosa avevo trovato e chiamai Bill Recht.
Avevo scoperto tutto e lui era furioso! Mi disse che ora che sapevo, avrei fatto meglio a capire come convincere Mario a collaborare con l’azienda Medici. Fui anche che la mia attività di rifinitura CyclArt doveva essere accantonata per accogliere i numerosi telai che la Medici avrebbero presto prodotto.
Anche se ero arrabbiato per il modo in cui Recht aveva manipolato le cose, a questo punto pensavo sarebbe stato meglio per Mario se avesse fatto come Recht voleva. Aveva il cuore spezzato, ma ho insistetti perché considerasse tutte le sue opzioni. In primo luogo, se accettava il suo status di dipendente, allora avrebbe dovuto ricevere un aumento molto consistente. Recht glielo offrì ma lui rifiutò un ottimo stipendio per guidare la nuova società. In quel momento quindi lavorava per molto meno. Sembrava che avrebbe ottenuto il guadagno retroattivo dell’inizio di “Bicycles by Confente” come compenso per aver “malinteso” di lavorare per se stesso. Aveva senso mantenere le biciclette Confente come il telaio personalizzato e di alta gamma, mentre la Medici costruiva le biciclette per un più largo consumo. Poiché c’erano negozi separati, Mario poteva limitare il suo coinvolgimento nelle operazioni quotidiane alla Medici e concentrarsi sull’operazione Confente, beneficiando al contempo delle considerevoli risorse e del potere di Bill Recht. Forse avremmo potuto ottenere un accordo sui bonus per i miglioramenti alla progettazione e alla costruzione del telaio. Mario, però, non si lasciò influenzare. Sottolineò che Recht ci aveva chiaramente tradito, era pesante e impiccione nelle nostre operazioni e aveva assunto persone che Mario non rispettava. Mario non voleva essere “parte di una compagine di bugiardi guidata da un bugiardo”.
Insistette che non si sarebbe mai associato in alcun modo alla Medici. Decise che avremmo dovuto ricominciare da capo, anche se ciò significava lasciare tutto il lavoro fatto e i suoi progetti alle spalle. C’era molto da perdere. Sottolineai che il successo dello scorso anno avrebbe reso più facile ricominciare. Almeno avremmo potuto portarlo con noi. Cominciarono ad arrivare i telai Medici per la pittura. Recht annunciò che dovevano essere pronti per il debutto allo show di New York. Mario avrebbe condiviso uno stand con Medici e che i rivenditori che volevano ordinare telai Confente avrebbero dovuto prendere 5 Medici per ogni Confente che volevano. Mario voleva smettere di prendere ordini e finire tutti i lavori in corso in modo da poter partire prima della fiera di New York. Non voleva essere associato in alcun modo al marchio Medici.
Suggerii discretamente a molti dei clienti di Mario che lui non era soddisfatto della sua situazione attuale e stava cercando di trasferirsi. Poiché il conto Confente non era del tutto in pareggio e non eravamo riusciti a mettere da parte molto nei risparmi personali, avremmo avuto bisogno anche di un finanziamento.
Un cliente, George Farrier, si offrì di lasciare che Mario rimanesse e lavorasse nel suo ranch a Carmel California. Io avrei dovuto trovare un modo per dipingere i telai altrove. Dopo un mese, nonostante l’orario lavorativo estremamente lungo, ci fu evidente che non era possibile finire tutti gli ordini. Mario decise di completare tutti gli ordini possibili e di lasciare il resto non avviato. Ci aspettavamo che i depositi sugli ordini in sospeso fossero restituiti ai clienti. Con 30 giorni rimanenti all’inizio della fiera, Mario scrisse una lettera di dimissioni che comprendeva una contabilità dei depositi da restituire. Demmo un preavviso di 30 giorni per consentire a Recht il tempo necessario per apportare modifiche prima della fiera. Volevamo partire in buoni rapporti. Modificai la lettera per chiarezza e la diedi a Carol per scriverla e inviarla.
Il giorno in cui Bill Recht ricevette la lettera, andammo a lavorare come al solito. Mentre chiudevo a chiave la macchina notai che Carol stava uscendo dall’ufficio in lacrime. Mi disse che Recht l’aveva chiamata personalmente e l’aveva licenziata per aver digitato e inviato la lettera di Confente. 20 anni di servizio, era il braccio destro di Sohmhegi e Recht l’ha licenziata all’istante senza nemmeno consultare Sohmhegi!
Ci ha augurato ogni bene e mi ha detto di stare “molto, molto, attento”. Fummo lasciati chiusi fuori dal nostro negozio. Mi avvicinai a Chris Sohmhegi che disse solo che Recht ci aveva licenziato e che non ci era permesso entrare nei locali. Gli feci notare che avevamo oggetti e strumenti personali nel negozio e chiesi che ci accompagnasse dentro in modo di poterli recuperare. Sohmhegi si rifiutò. Le sue istruzioni erano chiare, non ci era permesso entrare nei locali in nessuna circostanza.
Recht avrebbe chiamato quando fosse arrivato a Los Angeles per discutere la restituzione dei nostri strumenti, Sohmhegi non sapeva dirci quando. Chiesi se potevo essere autorizzato solo a pulire i miei strumenti perché la vernice si sarebbe indurita in 48 ore, rovinando la pistola. Sohmhegi rifiutò nuovamente e insistette perché ce ne andassimo immediatamente.
Mario e io ci ritirammo in un bar vicino per discutere della situazione.
Ci era chiaro che sarebbe passato del tempo prima che Recht arrivasse e nel frattempo c’erano cose di cui avevamo bisogno, come strumenti personali, libretti degli assegni, corrispondenza e altro.
Stilammo un elenco, ma era difficile ricordare tutto; continuammo a inventariare più cose possibili. Chiamai la polizia e cercai di denunciare che le cose sulla nostra lista erano state rubate. Quando spiegai che erano stati “presi” chiudendoci fuori dal nostro posto di lavoro, tuttavia, la definirono una “questione civile” e mi spiegarono che il meglio che potevamo fare era farci accompagnare da un maresciallo della contea il quale potrebbe restare a guardare e autenticare il nostro inventario nei locali. Tornammo da Sohmhegi e gli chiedemmo un appuntamento per l’orario in cui avrebbe aperto il negozio per poter fare questo inventario accompagnati dal maresciallo. Spiegammo che nulla sarebbe stato preso né addirittura toccato e che volevamo solo una fare una lista in modo da poter affrontare la questione con Bill Recht. Fatto ciò avremmo aspettato pazientemente la sua chiamata. Non riuscivo a vedere alcun motivo legittimo per il netto rifiuto di Sohmhegi. Proposi di chiamare Recht io stesso per proporgli l’idea, mi diede il telefono ma la segretaria di Recht disse che aveva rigide istruzioni per rifiutare qualsiasi chiamata da parte mia, Mario o qualsiasi menzione di Custom Bicycles by Confente.
Dissi a Chris Sohmhegi di averlo sempre trovato un uomo giusto e ragionevole e che non potevo accettare questo rifiuto, dato che non poteva supportarlo con nessuna ragione legittima. Mi chiese di dargli un elenco degli articoli che ci dovevano essere restituiti e lui avrebbe tentato di ottenere il permesso per la loro restituzione. Risposi che l’avrei potuto fare solo se lui avesse chiuso gli occhi per darmi un elenco accurato di tutto ciò che era sulla sua scrivania ma disse che non poteva farlo, avremmo dovuto aspettare Recht. Chiesi se il negozio sarebbe stato sigillato fino all’arrivo di Recht. Sohmhegi disse di no, che poiché era da uno dei magazzini delle sue fabbriche di carta, il responsabile del magazzino avrebbe avuto bisogno di accedere come il personale della Medici perché avevano bisogno di telai verniciati. Decisi di adottare un approccio più diretto. Tornai a casa, feci un cartello di protesta, “serrata ingiusta”, tornai al negozio e aspettai. Dopo un po ‘ John, il responsabile del magazzino, attraversò la strada con il suo camion per ritirare un rotolo di carta da stampa. John, un uomo più anziano e tranquillo con un debole per le corse di cavalli, era venuto a trovarci tutti i giorni nell’ultimo anno mentre faceva corse per i rifornimenti quasi ogni ora. Dissi a John che non avrei voluto metterlo nei guai, ma che se avesse aperto la porta, io sarei entrato, lui rispose che gli erano state date precise istruzioni che Mario e io non potevamo entrare nel negozio, gli dissi di chiedere a Sohmhegi. Tornò mezz’ora dopo e disse che Somhegi era furioso e che loro avevano davvero bisogno di più carta per la stampa. Era in sintonia con la mia posizione. Gli dissi che non mi muovevo, mi strinse la mano ed è fece ritorno senza il suo rotolo.
Poco dopo, tre stampatori si avvicinarono e mi dissero di toglierci di mezzo, si mettevano in posa e sembravano tosti, ma potevo vedere che i loro cuori non erano coinvolti. Sohmhegi aveva ordinato loro di “togliermi di mezzo”, ma in tipografia si era sparsa la voce che stavo resistendo al capo e loro ne erano decisamente felici! Per sicurezza indicai la mia ragazza con in mano una telecamera nella mia macchina chiusa dall’altra parte della strada. Tornarono indietro dicendo che non potevano spostarmi. A poco a poco, l’impianto dall’altra parte della strada diventò sempre più silenzioso, sempre più teste spuntarono dalle finestre della fabbrica per guardarmi. Alla fine, Chris Sohmhegi arrivò precipitosamente dall’altra parte della strada con l’aria di essere esploso. Mi ordinò di farmi da parte e gli risposi con calma che non c’era nessun motivo di negarci l’accesso per un semplice inventario, che non lo avrei colpito ma avrei fatto tutto il necessario per entrare in quella porta. Fummo letteralmente naso a naso. Si precipitò di nuovo dall’altra parte della strada e improvvisamente gli operai cominciato a lasciare il negozio. Alcuni sollevarono il pollice e scherzarono sul giorno libero di benvenuto.
Tornai più volte nelle quattro settimane successive mentre aspettavamo la visita di Recht. In un’occasione, la porta si aprì mentre ero seduto sulla soglia e vidi Brian Baylis, gli dissi che volevo entrare nel negozio scortato da un maresciallo della contea per fare un inventario. Avevo bisogno che ci facesse entrare. Brian rifiutò. Gli dissi che sicuramente aveva visto che io e Mario eravamo stati derubati, doveva fare quello che era giusto fare e lasciarci entrare. Cosa poteva esserci di sbagliato nel fare un inventario? Brian disse che gli era stato ordinato che di non farci entrare, per nessuna ragione e che non voleva essere coinvolto, era lì solo per fare il suo lavoro. Ammise che aveva bisogno di soldi. Gli risposi che lui ERA coinvolto in questa storia – era nel nostro negozio nel quale vedeva sicuramente le nostre cose delle quali eravamo stati privati e che questo era sbagliato.
Tuttavia continuò a rifiutarsi. “Sto solo eseguendo gli ordini“, disse.
Quello fece. Mi arrabbiai davvero e gli dissi “questo è quello che hanno detto i nazisti”, lo chiamai cospiratore, puttana, opportunista e codardo.
Chiuse la porta. Anni dopo, seppellii la mia rabbia con lui e gli proposi un lavoro e un posto dove avrebbe potuto continuare a costruire le sue biciclette nel negozio che condividevo con Masi a San Marcos. Quando la sua attività di costruzione di telai naufragò, cospirò con gli altri nell’edificio per costringere la CyclArt a lasciare i locali e promise di farmi fallire. A quanto pare, avevo ragione su di lui. Fui gentile con lui ad ogni riunione, gli offrii un luogo dove poter mostrare il suo lavoro ai miei eventi e gli diedi anche premi per il suo ottimo lavoro. Eppure mi rimase ostile, spesso persone mi dicono che il suo odio per me era evidente. Per quanto mi riguarda, una semplice mi dispiace sarebbe bastato, ma non è fui mai offerto. Nel racconto Brian (vedi thread CR), afferma di essere tornato nella zona nel febbraio 1979. È fuori di un anno. Era il 1978.
Mario Confente trascorse la maggior parte del 1978 a Carmel dove costruì e consegnò tutti i telai che ancora doveva nonostante il fatto che Recht non avesse mai restituito nessuno dei suoi debiti. Quando finalmente Recht arrivò si rifiutò di dare a Mario qualcosa cosa di valore e affermò che avrebbe usato il nome Confente per le sue bici.
Non diede a Mario nessuna delle cose che gli spettavano, nemmeno le più basiche. Si rifiutò di parlarci insieme e in effetti non volle vedermi o parlarmi. Come temuto, rivendicò tutti i beni, i soldi depositati e gli strumenti del negozio come sua proprietà. Fortunatamente ebrei una buona consulenza legale e nel suo rifiuto di darci qualsiasi cosa, Recht commise l’errore di non dare a Mario o me la nostra ultima busta paga, né di rimborsarci le spese. Ciò ci permise di presentare un reclamo contro di lui al Commissario statale del lavoro. La richiesta era limitata al nostro stipendio non pagato e al costo effettivo di sostituzione degli strumenti che erano stati persi, ma ne avevamo bisogno per ricomprarli. Sapevo da Carol che una delle tattiche preferite di Recht era usare abili stratagemmi legali per aumentare il costo delle azioni legali, mentire sotto giuramento e ridurre la controparte all’oblio.
Il Commissario statale del lavoro utilizza un processo di udienza informale che impedisce l’uso della maggior parte di questi trucchi legali, e una sentenza del Commissario del lavoro ha i denti. Ottenemmo il giudizio, ma Recht riuscì a sfuggire ai nostri sforzi di riscossione sostenendo che non aveva affari nello Stato della California. Avevo bisogno di un avvocato nel New Jersey, preferibilmente uno che non bruciasse l’intera sentenza cercando di ottenerla.
Chiesi a mia madre in New Jersey se conosceva dei buoni avvocati. Mamma è un’infermiera e aveva stretto amicizia con un potente avvocato mentre era in ospedale, disse che glielo avrebbe chiesto. Quando lo fece, e spiegò che si trattava di ottenere una sentenza della California Labour Commission, l’avvocato rispose che la mamma gli aveva salvato la vita e che avrebbe gestito la questione personalmente, senza alcun costo. L’avvocato era Sheldon Leibowitz. A quel tempo, Sheldon Leibowitz era una delle “pistole” legali più pesanti in circolazione. Era come se Johnny Cochran gestisse una multa! Mi sarebbe piaciuto vedere la faccia di Recht quando ha ricevuto l’avviso di Sheldon che mi stava rappresentando! Fedele alla forma, Recht provo con evasioni spettacolari e costose, spendendo facilmente molte volte il costo del giudizio cercando di difenderlo. Ho ancora una deposizione in cui occorrono quattro pagine per ottenere una risposta alla prima domanda, che è l’indirizzo della sua residenza principale. In esso Bill Recht afferma di non aver avuto alcun legame con Confente ma non poteva spiegare i 95 promemoria e lettere firmati che avevo dato a Sheldon. Sheldon vide il gioco di Recht per quello che era e reagì allo stesso modo.
A un certo punto disse che dedicava più tempo a questo caso rispetto ad altri con milioni in gioco. Quasi due anni dopo, ricevetti un assegno. Mario non ha mai avuto la sua perché morì 6 mesi prima, il 12 marzo 1979, all’età di 33 anni, per insufficienza cardiaca. Mentre Mario era a Carmel, avevo accettato un lavoro come direttore di uno dei primi supermercati di “alimenti naturali”. Poco dopo si trasferì di nuovo nella zona di San Diego e sposò Lisa. Presi la decisione di lasciare la mia promettente carriera e ricominciare CyclArt. Susan e io trasferimmo la nostra residenza nell’edificio industriale incompiuto di San Marcos, così potei dedicare tutte le mie energie a questo. Stavo spazzando l’edificio quando ricevetti la notizia della morte di Mario. Da quando si era separato con Recht Mario aveva ricostruito i suoi strumenti e il suo inventario. Aveva trasferito il suo negozio da Carmel al garage di Lisa.
Dopo la morte la moglie, appena sposata e già in lutto, ha venduto i suoi strumenti e il suo inventario a un acquirente senza scrupoli per $ 800. Quell’inventario è stato disperso. Sono sicuro che la maggior parte è in buone mani riconoscenti, ma c’è sempre stata preoccupazione per i falsi a causa della natura del modo in cui le sue cose sono andate perse. Mario aveva creato uno stampo per le proprie congiunzioni, nella sua confusione, sua moglie le ha scartate.
Credo che la valutazione di Brian sul fallimento di Medici sia corretta. Credo anche che Bill Recht avesse ragione nel dire che aveva bisogno di Mario per far funzionare quell’azienda. Senza di lui, scivolò nella mediocrità. È ironico che per molti anni una foto di Mario sia stata appesa nella bottega Medici, rivendicato come il loro fondatore. Non potei aiutare abbastanza Mario, ma cerco di essere all’altezza dei suoi elevati standard, fino ad oggi.
JFC ~ CyclArtist
Jim Cunningham
Vista, CA
CONFENTE
CONFENTE
VERONA, 1945 – 1973,
SAN CRISTOBALD CALIFORNIA
USA 1973 – 1979
Confente Custom Bicycles
Fonti: Fonti: Classic Rendezvous / Confente history by Russell W., Bicycle Trader 1988 / About Confente by Jim Cunningham on Classic Rendezvous 2001 / Italian Cycling Journal / Russell W. Howe
Il testo che segue è la traduzione, integrata con altre informazioni che ho recuperato nel tempo, dell’articolo di Russell W. Howe’s scritto e pubblicato originalmente per Bicycle Trader 1998. Mario Confente, considerato a livello mondiale uno dei migliori costruttori di bici in acciaio dell’epoca Eroica, scomparse prematuramente l’8 marzo 1979 all’età di 33 anni. Ha lasciato una preziosa eredità di 125 telai da strada e 11 da pista firmati con il suo nome. Mario fu il primo ad unire l’inimitabile estetica del design italiano con gli standard qualitativi di produzione americana e creò dei dei telai che ancora oggi sono considerati veri e propri capolavori e, in quegli anni, esercitarono una forte influenza e una spinta innovatrice nel mercato americano e mondiale. Molti dei migliori costruttori impiegarono l’intera carriera e crearono migliaia di telai per ottenere qualità manuale e conoscenza tecnica che Mario riuscì a raggiungere in pochi anni. Il rispetto e l’ammirazione verso il suo lavoro e la sua persona sono il frutto della sua totale dedizione e passione per la bicicletta. Il suo standard era niente meno che la perfezione.
Mario Confente nacque il 29 gennaio 1945 a Montorio, un piccolo paese vicino a Verona, terzo e unico maschio di cinque figli. Sua sorella Gianna lo ricorda così: “La sua infanzia non fu facile perché eravamo una famiglia modesta e solo nostro padre lavorava, subito dopo la guerra erano anni molto difficili.” In quel contesto Mario fu mandato a lavorare molto giovane come apprendista nel locale negozio di ferramenta dove la sua predisposizione alla meccanica attirò subito l’attenzione di un amico di famiglia che gli offrì un posto come riparatore di telai meccanici nel grande lanificio di sua proprietà. Mario non interruppe comunque gli studi e riuscì nell’approfondire la sua cultura nel disegno meccanico presso il liceo Leonardo Da Vinci.

“Casa Vaoma” la residenza di Mario e della famiglia Confente a Montorio (Verona).
Come molti dei suoi coetanei in Italia in quel periodo Mario aveva una grande passione per il ciclismo.
A tredici anni entrò nel gruppo sportivo del suo paese S.S. Aquilotti Veronesi e un paio d’anni più tardi vinse il campionato provinciale juniores con la maglia del C.S. Gaiga Verona. All’età di diciotto anni entrò nella squadra del G.S. Benchini, a quei tempi la migliore nella categoria dilettanti, dal 1963 al 1966 i componenti della squadra raggiunsero risultati impressionanti: 1963: Medaglia d’oro, Campionati Mondiali Dilettanti, vinta dal corridore Flaviano Vicentini; 1964: medaglia d’argento 100km a squadre a tempo, Olimpiadi di Tokyo con i corridori Bencini Pietro Guerra e Severino Andreoli; 1965: medaglia d’oro 100km a cronometro a squadre, Campionati del Mondo, fanno parte del quartetto i componenti della Bencini, Pietro Guerra e Severino Andreoli; 1966: Medaglia di bronzo 100km a tempo a squadre, Campionati del Mondo, Pietro Guerra fa parte del quartetto.
A questo livello di competizione l’impegno sportivo era gravoso, Mario scelse quindi di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alle corse ma, per arrotondare lo stipendio, riuscì a trovare le energie per iniziare a costruire telai da corsa presso l’officina della Grandis di Verona, un’esperienza che poi si rivelò fondamentale per la sua carriera. Come dilettante si piazzò in diverse gare e alcune addirittura le vinse.
I suoi compagni di squadra lo ricordano così:
Severino Andreoli:
“Mario era un forte corridore, non vinceva molto ma era spesso tra i primi posti in classifica. Si sacrificava per la squadra durante le fughe o per bloccare gli avversari mentre un compagno prendeva il volo per la vittoria.”.
Renzo Ferrari:
“Ho conosciuto Mario quando avevo 17 anni e lui 16. Eravamo in una palestra e siamo diventati amici anche se correvamo per club diversi. Mario aveva un buon carattere e andava d’accordo con tutti anche quando correva. Era generoso e molto stimato per la sua passione per il ciclismo. Si distingueva dagli altri per l’attenzione, la manutenzione e la cura che aveva per la sua bicicletta. Aggiustava sempre la mia bici e mi ha persino insegnato a raccogliere i funghi selvatici!“.
Nel 1963, durante una gara, Renzo e Mario si staccarono e percorsero insieme gli ultimi 20 km. Renzo vinse e Mario dovette accontentarsi del secondo. Tuttavia, rimasero amici per molto tempo.
Dal 1968 al 1970 Confente continuò a costruire telai nel laboratorio di casa. In questo periodo la Bianchi gli chiese di realizzare telai con un contratto di lavoro a cottimo. Ben presto ebbe più lavoro di quello che poteva gestire da solo superando le capacità del piccolo laboratorio. Fu così che nel 1970 i Confente lasciarono si trasferirono in via Olivé all’altezza dell’odierno civico 17, il garage a pian terreno, benché modesto, venne trasformato in officina meccanica, mentre il piccolo appartamento al piano superiore divenne la dimora di Mario e dei suoi genitori.
La sua reputazione come telaista nel frattempo continuava a crescere nell’ambiente sportivo.
Pietro Guerra: “Presentammo Mario al famoso Faliero Masi di Milano. All’inizio Masi portava il lavoro da fare direttamente a Verona da Mario. All’epoca il mercato della bici in Italia era lento, quindi grazie al progetto Masi USA Mario si trasferì in California, in cerca di migliore fortuna “.
All’inizio degli anni Settanta gli Stati Uniti vissero una crisi energetica e un conseguente boom delle biciclette. Roland Sahm, un ricco uomo d’affari di San Diego intuì che era il momento giusto per creare un mercato e contattò molti dei più importanti produttori italiani di biciclette cercando di ottenere la licenza del loro nome e costruire telai negli Stati Uniti. A detta dello stesso Sahm, Cinelli, Colnago e Bianchi rifiutarono l’offerta. Tuttavia Faliero Masi riconobbe il potenziale del crescente mercato statunitense e accettò di vendere a Sahm i diritti per la produzione di biciclette a suo nome negli Stati Uniti.
Dopo un periodo di collaborazione, durato circa un anno tra le officine di Verona e Milano, Faliero offrì a Confente il ruolo di responsabile di produzione del nuovo stabilimento Masi di Carlsbad, nei pressi di Los Angeles, dove questi arrivò nell’ottobre del 1973 insieme ad altri due giovani collaboratori.
Come intuibile da una lettera che Ernesto Colnago gli scrisse pochi giorni dopo la sua partenza, Mario forse non pensava di restare a lungo negli USA.
Caro Mario,
Qualche giorno fa sono passato da casa tua per salutarti, ma sono rimasto sorpreso di vedere tua madre e tuo padre un po demoralizzati dalla tua partenza. Mi hanno assicurato che tornerai tra 20 o 30 giorni. Questo mi fa piacere perché come concordato stavo per proporti un’attività con grandi profitti. Torna presto e quando arrivi a Milano chiamami così verrò a prenderti e poi a riportarti a casa.
Scrivimi. Cordiali saluti,
Ernesto Colnago
Faliero Masi cedette quindi i diritti di uso del marchio Masi all’uomo d’affari di San Diego Roland Sahm e, In base all’accordo stipulato, le biciclette Masi USA sarebbero state interamente costruite sul suolo degli Stati Uniti. Failero si recò quindi direttamente nel nuovo stabilimento per supervisionare l’inizio della nuova impresa accompagnato da Confente incaricato del ruolo di direttore dell’intera produzione e della formazione dei dipendenti.
Nel corso di tre anni Mario supervisionò circa 2.200 biciclette prodotte nella fabbrica statunitense Masi di Carlsbad in California. Per raggiungere quel livello di produzione Mario dovette formare un buon numero di lavoratori, molti dei quali messicani, perché svolgessero la maggior parte del lavoro di preparazione necessario alla costruzione di un telaio.
Lisa Confente:
“Mario rispettava i ragazzi messicani che lo aiutavano. Pranzavano spesso insieme e a Mario piacevano le tortillas. Questi uomini venivano dal Messico e facevano sacrifici per prendersi cura delle loro famiglie, mandavano a casa ogni centesimo. Queste erano le persone che Mario ammirava, quelle che lavoravano sodo e si prendevano cura delle loro famiglie. Lui era così Vecchio Mondo “.
Elisa ricorda anche il viaggio in Italia dell’aprile 1976 dove incontrarono Tullio Campagnolo e il campione Eddy Merckx.
Elisa:
“Eddy stava facendosi massaggiare prima della gara Milano-San Remo, quando rivolto a Mario disse “Hey Mario! Adoro le tue bici e ne vorrei un’altra fatta da te.“, mario replicò che poteva costruire molte biciclette per lui se gli faceva firmarne i telai con il suo nome”. Negli Stati Uniti una delle cose più indigeste a Mario era la scarsa padronanza della lingua. In Italia era come un’altra persona: era così forte laggiù.”.
Tuttavia, quando si trattava di costruire e commercializzare biciclette, Mario era tutt’altro che “Vecchio Mondo”, una sera lui e Faliero Masi si recarono al velodromo dell’Encino dove Jerry Ash, velocista e campione negli anni ’70, era in pista per allenarsi. I due lo convinsero a costruirgli un telaio da pista personalizzato.
Jerry Ash: “Prima di ricevere il telaio Masi, correvo con un Rickerts e prima ancora un Paramount. Andai alla fabbrica Masi a Carlsbad dove mi presero le misure per il telaio che Mario poi costruì. Volevo un telaio da pista completo che fosse performante nello sprint. Il primo giro sulla bici fu fantastico.“.

Eddy Merckx con Mario Confente
Nonostante fosse incoraggiante che i migliori corridori cominciavano a riconoscere la qualità della nuova impresa Masi USA, Mario non era soddisfatto. Quello che davvero gli mancava era la possibilità di costruire telai marcati con il proprio nome. Fin dal suo inizio l’operazione Masi USA non riuscì mai a decollare dal punto di vista organizzativo e commerciale; forse fu questo ad attirare l’interesse speculativo di un importante imprenditore del New Jersey, Bill Recht, il quale tentò con ogni mezzo di acquistare l’azienda da Roland Sahm. Incapace di raggiungere il suo obiettivo, Recht riuscì comunque a “conquistare” il loro migliore talento offrendo a Confente di supportarlo economicamente nell’apertura della sua azienda. Per Mario era un sogno che si realizzava, avrebbe finalmente costruito bici con il suo nome, o almeno così questa era la sua speranza.
Nel 1976 a Los Angeles nacque così la “Custom Bicycles by Confente” dei soci Mario Confente e Jim Cunningham. Una delle prime cose che Mario fece appena aperta la società fu contattare di nuovo Jerry Ash e offrirsi di costruirgli una bici da strada e da pista; nel triennio 1976/78 Ash corse con suoi telai nel Campionato del Mondo arrivando settimo nel 1977, risultato mai raggiunto da un corridore americano in oltre un decennio.
In poco tempo anche altri corridori professionisti, tra cui Jonathan Boyer, si recarono a Los Angeles per poter avere un telaio Confente. I telai costruiti da Mario stavano diventando un punto di riferimento e soprattutto un nuovo standard costruttivo nel mercato USA delle biciclette da competizione.
Lisa:
“Mario si è gettato anima e corpo in questa avventura. Ha lavorato come un demonio. Avrei fatto qualsiasi cosa per strapparlo dalla sua officina di Los Angeles, ma lui non usciva prima di aver finito e ripulito perfettamente il suo laboratorio. Lo avrei aiutato a pulire il pavimento pur di tirarlo fuori di lì.”.
I telai Confente ebbero un enorme successo al salone della bicicletta di New York il primo anno in cui furono presentati.
Tom Kellogg, di Spectrum Cycles:
“Mario fece cose meravigliose e spinse i costruttori americani oltre uno stile estetico un po’ semplice che tutti noi qui avevamo. Ci costrinse a ripensare il nostro approccio. I telai di Mario erano i primi a combinare la qualità americana e il look italiano. Non era mai stato fatto prima. In poco tempo poi anche gli americani hanno reso il look dei loro telai più agile”.
Ben Serotta:
“Dopo aver visto le biciclette di Confente al salone di New York, ci siamo resi conto che aveva alzato gli standard”.
Richard Sachs:
“Ricordo di essermi chiesto, cosa può mai fare un costruttore a un telaio per poterlo fare costare così tanto?”
Un telaio Confente costava 400$ rispetto ai 180$ di un Sachs.
Mario Confente:
“Un telaio deve uscire perfetto sotto ogni punto di vista. Non si può sbagliare nemmeno di mezzo centimetro. I corridori se ne accorgerebbero subito e ne andrebbe della mia serietà. Quindi massima perfezione. I telai devono essere precisi. Debbono corrispondere alle misure della lunghezza delle gambe, del corpo e delle braccia. Non devono superare il chilogrammo e mezzo. I miei sono esattamente kg 1,490”.

Attrezzi e congiunzioni dell’officina di Mario Confente
Il segreto della sua tecnica di saldatura stava nel lavorare ad una temperatura appena inferiore al punto di fusione dell’acciaio in maniera da non danneggiare, distorcere o cristallizzare il tubo evitando così di esporre la sua struttura molecolare ad un eccessivo calore, cosa che avrebbe indebolito il metallo. Per assemblare le sue bici usava soltanto i migliori componenti, equipaggiamento completo Campagnolo, manubri e selle Cinelli, tubolari Clement, trasmissioni e catene Regina, tubi d’acciaio Reynolds e Columbus.
Come ogni cosa bella e ben costruita diviene costosa, anche i telai di Mario, eleganti e tecnicamente ben realizzati e innovativi, erano molto cari per i prezzi dell’epoca, tanto che Bill Recht decise di trarre maggiori profitti sfruttando la fama del nome “Confente”. All’insaputa di Mario, Recht organizzò il lancio del nuovo marchio “Medici by Confente” al successivo New York Bicycle Show. In realtà si trattava di telai realizzati con scarse imitazioni delle congiunzioni progettate e brevettate da Mariom, venduti a prezzo decisamente più economico e prodotti in numero elevato ma comunque firmati Confente (oltre alla condizionale che obbligava i grossisti all’acquisto di 5 bici Medici per ogni Confente). Quando prima della fiera di NY Mario scoprì il piano di Recht e presentò insieme al socio Jim Cunningham (conosciuto alla Masi verso la fine del 1975) le sue dimissioni, Recht aveva già messo in atto una sofisticata trappola legale con la quale riuscì ad appropriarsi di tutti i diritti sulle invenzioni Confente e addirittura ad impedire ai due di poter rientrare nella loro fabbrica per recuperare le attrezzature.
A pochi mesi di distanza, privato anche della possibilità di poter recuperare i propri strumenti di lavoro, Mario si diresse a nord verso l’unico posto dove sapeva di poter continuare a lavorare, Monterey, dove tempo addietro aveva incontrato Jonathan Boyer, l’astro nascente del ciclismo americano, e il suo sponsor George Farrier. Ora ci andava semplicemente per trovare un luogo dove poter lavorare. Fu così che Farrier ospitò Mario nell’officina meccanica situata nel proprio garage.
Farrier ricorda il giorno in cui Mario si presentò nella sua proprietà:
“Mario entrò nel vialetto con la sua macchina. Rimasi sorpreso di vederlo e gli chiesi cosa ci facesse qui, con il suo forte accento italiano mi rispose che era qui per costruire biciclette.“.
Anche se gli alloggi di Farrier erano di prima classe, Mario desiderava ancora lavorare nel proprio negozio. Dopo la disfatta, economica e psicologica, dell’impresa con Recht, Mario e Jim Cunningham si impegnarono quindi a mettere insieme un nuovo piano aziendale.
Il 12 febbraio 1979 Mario, dopo molti anni di fidanzamento, sposò Lisa e insieme si stabilirono a Encinitas, una città costiera situata a nord di San Diego, dove Mario rinnovò il garage per aprirci suo nuovo negozio.
Lisa Confente:
“Lasciai Mario e andai a Houston per un po’. Volevo sposarmi ma sapevo che lui non lo avrebbe mai fatto. Mandava sempre molti soldi a casa in Italia e allo stesso tempo era convinto che servissero tanti soldi per potersi sposare. Avevo una casetta a Encinitas e credevo che saremmo stati bene. Quando capii che non avrebbe funzionato, gli dissi la chiudevo qui, eravamo insieme da cinque anni e non c’era futuro. Mario era depresso e molto solo dopo che ho lasciato la California. Sei mesi dopo, quando tornai dal Texas, mi chiese di sposarlo.“.
Tragicamente, proprio quando era così vicino a realizzare il suo sogno, Mario morì improvvisamente di insufficienza cardiaca. Lui e Lisa si erano sposati da meno di due settimane.
L’autopsia in seguito rivelò che Mario aveva il cuore ingrossato e soffriva di gravi malattie cardiache.
Lisa ricorda l’ultima mattina di Mario:
“Stava per tornare alla Masi a lavorare per un breve periodo, solo per fare un po’ di soldi. Quella mattina si era alzato molto presto perché doveva andare alla Masi a incontrare il loro caposquadra. Era davvero sconvolto e stressato all’idea di andarci. Sentivo che era qualcosa che non voleva ma lo stesso doveva fare.“.
La cosa successiva che Elisa ricorda:
“Un ragazzo motociclista lo trovò… era un Hell’s Angel. Bussò alla porta, saranno state le 5:30 o le 6:00 del mattino, e mi disse:”Signora, signora, c’è un uomo qui fuori e penso che sia morto.” Uscii fuori e lo vidi, lì disteso per strada. Tutto quello che riuscì in quel momento a dire fu: le sue mani stanno bene? Lui lavora con le mani. L’avevo perso. Non respirava e non si muoveva. Il suo corpo era accanto alla macchina, un po’ fuori sulla strada, forse aveva cercato di spostarla.“.
L’8 marzo 1979, a soli 34 anni, Mario Confente morì per arresto cardiaco. I telai rimasti firmati con il suo furono solo 135, la maggior parte dei costruttori di telai impiega anni e costruisce migliaia di telai per ottenere il riconoscimento che Mario ha raggiunto in così poco tempo. Il rispetto che gli fu attribuito allora come oggi è la testimonianza della sua devozione e della sua passione per la bicicletta. Il suo standard era a dir poco la perfezione.
La morte improvvisa e inaspettata di Mario Confente fu uno shock per l’intera comunità ciclistica americana. In pochi anni di carriera Mario stava trasformando l’intera industria del ciclismo da competizione del Paese. Con il talento e la passione di Mario, ci si può solo chiedere come sarebbero stati i suoi telai costruiti oggi. Ci si può solo interrogare sull’uomo che sarebbe diventato.
“Un telaio deve uscire perfetto sotto ogni punto di vista. Non si può sbagliare nemmeno di mezzo centimetro. I corridori se ne accorgerebbero subito e ne andrebbe della mia serietà. Quindi massima perfezione. I telai devono essere precisi. Debbono corrispondere alle misure della lunghezza delle gambe, del corpo e delle braccia. Non devono superare il chilogrammo e mezzo. I miei sono esattamente kg 1,490”.
— Mario Confente
IL DESIGN DEI TELAI CONFENTE
Negli anni ’70 le congiunzioni in microfusione come quelle prodotte da Cinelli e fabbricate dall’azienda “Microfusione Italiana” avevano bordi affilati e la sovrapposizione per la brasatura era molto sottile, inoltre, mentre le congiunzioni in lamiera d’acciaio stampate e saldate potevano essere facilmente deformate fino a 3 o 4 gradi, quelle ottenute per fusione permettevano la tolleranza di un solo grado. Questi problemi richiedevano grande maestria e impegno da parte del costruttore per adattare perfettamente le congiunzioni agli angoli prefissati. In quegli anni Confente che, come già scritto, da giovanissimo aveva studiato presso un’Istituto professionale la fusione e la lavorazione dei metalli, non era soddisfatto della qualità estetica e funzionale delle congiunzioni microfuse, le quali a suo giudizio erano troppo pesanti e facili a deformazioni tali da richiedere poi ore di lavoro manuale per essere corrette.
Nei suoi progetti, che inutilmente provò a brevettare, il problema della inevitabile deformazione durante la solidificazione del metallo era evitato anticipandolo, con delle distorsioni calcolate presenti già nella forma dello stampo. Le congiunzioni Confente erano perfettamente coerenti, prive di “vuoti” e con una tolleranza più precisa per rendere più facile la brasatura, in particolare con la lega d’argento. Mario progettò anche dei forcellini che richiedevano una quantità inferiore di ottone per riempire le estremità dei tubi rispetto a quelli convenzionali.
Gli stampi prodotti da Recht sulla base dei disegni e dei modelli di Confente, poi utilizzati all’insaputa di quest’ultimo sui telai “Medici”, non furono realizzati in modo accurato. Purtroppo il giorno della sua scomparsa Mario era ancora alla ricerca dei fondi necessari per realizzare in modo preciso gli stampi da lui disegnati ma i progetti furono dispersi nel caos che seguì la sua improvvisa morte.

Scatole movimento centrale Mario Confente dei telai n. 13 e n. 15. Ph Lerry Ravioli

Scatola movimento centrale Georg Fisher per Confente, ancora allo stato grezzo.

4 fori nella congiunzione tra i tubi sterzo e orizzontale,
uno dei dettagli attraverso i quali identificare un telaio creato da Confente.

BROCHURE CONFENTE
Testi estratti dalla brochure Confente prodotta dalla Rexart Cyclery.
NOTA: William Recht usava andare in stampa con i cataloghi Confente e Medici senza mostrare prima le bozze al team di lavoro, le informazioni tecniche risultano quindi in parte incomplete o errate. Ad esempio Confente usava tubazioni Columbus e non Reynolds per i propri telai.

TESTI BROCHURE IN ITALIANO
Mario Confente ha raggiunto fama interanazionale come costruttore per la Masi Bicycle Company in Italia e, di recente, negli Stati Uniti.
Mario ora disegna e costruisce biciclette personalizzate con il suo nome.
Una divisione della Rexart Cyclery di Jersey City, N.J., l’azienda di biciclette Confente è ospitata in un nuovo stabilimento appositamente progettato a Los Angeles. Nello stabilimento vengono prodotte biciclette da strada e da pista su misura.
Confente ha prodotto più biciclette professionali di qualsiasi altro costruttore di telai negli Stati Uniti. Dopo aver svolto un apprendistato presso la Bianchi, azienda di biciclette molto conosciuta in Italia, è entrato in Masi. Qui le sue abilità maturarono al punto che divenne noto come l’artigiano dei campioni. Durante un periodo di sette anni in cui è stato capomastro per Masi ha prodotto circa 1.700 biciclette. Molti campioni nazionale e internazionali correvano con queste bici, inclusi vincitori di eventi come il Tour de France.
Nel 1972 Confente è arrivato negli Stati Uniti insieme a Faliero Masi per fondare la Masi-U.S.A., Qui ha supervisionato la produzione di oltre 2.000 biciclette.
Poiché la sua fama come esperto costruttore di telai cresceva tra i migliori corridori negli Stati Uniti, gli veniva spesso chiesto di progettare biciclette su ordinazione. Rispondendo a questa richiesta, Confente si associo con Rexart nel 1976. Nel giro di pochi mesi, corridori statunitensi noti a livello nazionale come Jerry Ash, Skip Cutting e Xavier Miranda iniziarono a correre con biciclette Confente.
Confente ha sviluppato una serie di innovazioni tecnologiche per il suo nuovo stabilimento. Tra le attrezzature che ha progettato per l’impianto ci sono maschere appositamente adattate e in acciaio cementato per assemblare e unire sia i telai stradali che quelli da pista. Utilizzate per mantenere gli angoli del telaio e le lunghezze dei tubi con tolleranze eccezionalmente ridotte, le maschere assicurano la produzione esattamente secondo la geometria designata di ciascun telaio. Ciò si traduce in telai con una eccellente geometria che in un telaio personalizzato significa non solo che è perfettamente dritto, ma che i tubi, i foderi e la forcella raggiungono esattamente gli angoli desiderati e richiesti per il ciclista specifico per il quale la bicicletta è progettata su misura.
Dopo che è stata determinata la configurazione del telaio, il primo passaggio nella produzione consiste nel tagliare il tubo alla dimensione desiderata. Questi tubi vengono quindi adattati a congiunzioni, movimento centrale e testa forcelle appositamente progettati per fusione a cera persa prima di essere modellati negli angoli desiderati.
Particolare attenzione viene data alla saldatura di tubi, foderi e congiunzioni. Confente ha sviluppato un metodo di brasatura particolarmente preciso per assicurare che tutti i componenti siano uniti senza fori o vuoti che potrebbero portare a possibili guasti in condizioni di servizio estremamente impegnative.
La chiave della tecnica di brasatura Confente è nell’utilizzare una temperatura che è appena sotto il punto di fusione dell’acciaio per non danneggiare, deformare o cristallizzare il tubo sottoponendo la sua struttura molecolare a un calore calore troppo alto che indebolirebbe il metallo.
Viene utilizzata una tecnica di brasatura in ottone puro invece di una lega di brasatura poiché questa procedura si traduce in giunzioni più resistenti, questa è una ulteriore caratteristica di fondamentale importanza nella costruzione di telai di alta qualità. Viene utilizzato spesso una speciale disossidante, sviluppato da Confente, per assicurare una corretta brasatura di tutti i giunti.
Dopo che il telaio è stato assemblato, sabbiato e accuratamente ispezionato, riceve un bagno acido di preverniciatura. Questa operazione rimuove tutte le impurità e gli ossidi dalla superficie dell’acciaio. Inoltre, il bagno di acido previene inoltre il flusso rimanente dal compiere un’azione corrosiva.
Il bagno acido è seguito da una procedura di essiccazione in forno. Quindi vengono applicate due mani di primer cotte. Questo passaggio è seguito da due applicazioni di colore primario, entrambe polimerizzate con il calore. Le decalcomanie vengono quindi applicate e, come passaggio finale, il telaio riceve due mani di vernice trasparente.
Confente utilizza una speciale vernice acrilica perché ha una superficie molto più dura rispetto alle vernici epossidiche o a base di uretano che non resistono alle condizioni di servizio impegnative delle corse senza usurarsi, scheggiarsi o corrodersi. Appena prima dell’operazione di verniciatura, i forcellini anteriori e posteriori e la testa della forcella sono talvolta placcati con una combinazione tri-metallica di rame, nichel e cromo per prevenire la ruggine. Queste parti vengono mascherate durante le operazioni di verniciatura.
Solo i migliori componenti vengono utilizzati per biciclette Confente, tutte completamente equipaggiate Campagnolo; Manubrio, attacco manubrio e sella Cinelli; Clemente seta pneumatici; Regina ruota libera e catena; e, naturalmente, tubi Reynolds o Columbus.
I telai Confente sono prodotti in tutti i tipi di tubi Columbus e Reynolds. Poiché ogni bicicletta è fabbricata individualmente, è possibile combinare tubi principali Columbus e Reynolds in base alle preferenze del cliente.
Per i clienti che non possono venire direttamente allo stabilimento di Los Angeles, Confente ha sviluppato uno speciale schema dello scheletro del corpo umano. Il suo utilizzo assicura che le dimensioni del telaio e tutti gli altri parametri di progettazione siano esattamente conformi all’altezza del cliente, lunghezza della gamba, estensione del braccio, atteggiamento della vita in posizione abbassata, distanza dal reggisella allo stelo e tutte le altre variabili critiche coinvolte nella progettazione del telaio personalizzato.

Modulo Confente per la registrazione delle misure del ciclista e del telaio.
BALDINI
BALDINI
FAENZA, ca 1950 – ca 1960
Cicli Baldini / Faenza
Fonti: Intervista ad Nino Baldini, archivi online
Ha collaborato con: Antonio Alpi
Nei primissimi anni '50 Nino Baldini, cugino del leggendario campione Ercole Baldini, aprì a Faenza un negozio di biciclette. Oltre alla rivendita di marchi blasonati del Nord Italia il negozio offriva ad amatori e corridori professionisti biciclette da corsa di alta gamma. Per la costruzione dei telai si affidò al talento di Antonio Alpi.
In quegli anni in Emilia-Romagna non mancavano di certo costruttori di altissimo livello come ad esempio Antonio Alpi e Vito Ortelli a Faenza, i Guerra di Lugo o Marastoni e Patelli in Emilia. La collaborazione fu instaurata con Alpi che costruì per Baldini telai dai primi anni ’50 fino alla sua prematura scomparsa nel 1959.
Baldini fornì biciclette da corsa a diverse squadre della zona e per qualche anno mise in piedi anche il proprio gruppo sportivo. Nel 1954 fu Nino a fornire la bicicletta al cugino Ercole per la conquista del record del mondo dell’ora dilettanti, dalla fattura dei dettagli potrebbe essere una Alpi anche se il seriale “89 80”, una coppia di due cifre divise da uno spazio è diverso dalle altre (Baldini seguiva in genera una numerazione progressiva semplice), l’ipotesi si avvalora anche dal fatto che è stato rinvenuto un altro telaio Baldini sicuramente costruito da Alpi che riporta lo stesso tipo seriale “11 80”.
Alla fine degli anni ’50 il negozio sostituì la vendita cicli con altri prodotti, probabilmente anche a causa della scomparsa di Alpi.
1954, Ercole Baldini conquista il Record dell’Ora dillettanti con una bici Baldini.

Baldini numero “11 80”, costruita da Alpi. Il tipo di numerazione seriale, differisce dalle altre (numerazione progressiva) ed è identico a quello che appare sulla bicicletta da pista con cui Ercole Baldini conquistò il Record dell’Ora dilettanti nel 1954. Cambio Campagnolo a due leve, probabilmente fini anni ’40, primi 50. Foto Legendary Bikes
PARATELLA
PARATELLA
TORINO, PRIMI ANNI ’40 – PRIMI ANNI ’80
Cicli Paratella / Biciclette su misura – Torino
Fonti: documenti on-line, interviste, Pier Paolo Benedetto “Dalla leggenda del ciclismo alle bici su misura”.
Ha collaborato con: Campagnolo, Pelà, Picchio, Beltramo
Sicuramente uno dei più creativi e longevi telasti italiani riuscì nel condurre, dagli anni ’40 agli anni ’80, la propria bottega artigianale attraverso le crisi e i cambiamenti tecnologici del mercato della bicicletta.
Protagonista di quella straordinaria generazione di artigiani che illuminò la Torino del pedale nel periodo Eroico, Beltramo, Pelà, Picchio, i fratelli Giamè, Paratella, tutti colleghi e concorrenti ma soprattutto amici pronti a condividere passione e idee.
Fidato consulente di Tullio Campagnolo, il quale spesso si recava nella officina di Via Cuneo 7 per mostrargli l’ultima innovazione e avere da lui preziosi consigli tecnici.
La raffinata e originale creatività nella lavorazione dei dettagli, unita all’alto tasso tecnico/funzionale di insieme nella costruzione del telaio fecero di Paratella un protagonista nel panorama dei costruttori di bici in acciaio da strada, ciclocross e pista in Italia e all'estero. Stimato da campioni professionisti italiani come Defilippis e molto richiesto dai mercati di Francia e Spagna, costruì bici e lavorò come meccanico per importanti squadre, seguendole nelle principali competizioni internazionali dei grandi tour su strada così come in pista.
La sua scelta di una produzione limitata ad un massimo di circa 2 telai al mese era funzionale alla volontà di dedicare la massima attenzione ad ogni dettaglio artistico e tecnico di tutti i telaio costruiti.
“Perchè il telaio che va bene a lei non va bene a me”
— Corrado Paratella

Corrado Paratella, Milano 28 Settembre 1912 – Torino 4 Maggio 1994, collega e amico degli altri leggendari costruttori torinesi del suo tempo come Pelà, Beltramo, Picchio e i fratelli Giamè.
Negli anni ’30 il giovane Paratella provò con le corse, siamo ai tempi in cui ai corridori si davano premi soltanto se vincevano. È preistoria (anzi leggenda) di questo sport, con nell’albo d’oro i nomi di Belloni, Guerra, Bottecchia, Gerbi, e naturalmente Binda e Girardengo. Paratella macinò alcune migliaia di chilometri sulle gare in linea: Milano-Sanremo, Torino-Milano, Roma-Napoli-Roma. Corse in squadra e come indipendente, le gare gli servivano non tanto per conquistare qualche premio bensì per carpire i segreti delle biciclette su cui correvano i campioni.
Aveva intuito infatti che per vincere non bastava la forza dei muscoli ma serviva una biciclatta in grado di adattarsi all’atleta come il guanto alla mano. Fu il classico “uovo di colombo” a cui si dedicò con devozione, perfezionando i dettagli fino a farsi un nome nel firmamento dello sport dei pedali.
In quegli anni corse in squadra insieme a Tullio Campagnolo nel GS “Niccolò Biondi Capri”, come riportato anche nel libro biografico sulla vita di Tullio “il gigante e la lima“, edito dalla Campagnolo in tiratura limitata nel 1993 per i propri dipendenti. Tullio prima di immettere un componente sul mercato si recava sempre da Paratella per fargli testare la nuova innovazione e ricevere il suo parere tecnico. Oggi le Paratella sono ricercato tra i collezionistiì per la limitata e pregiata produzione di telai da corsa e pista.
Dalla sua bottega uscivano decine di esemplari, tutti pezzi unici, autentici gioielli. La maggior parte delle commissioni non erano dall’Italia ma arrivavano da Spagna, Germania, Francia. Il suo lavoro era apprezzato anche da diversi corridori professori italiani del tempo come De Filippis e Battistini. Come meccanico seguì squadre nei grandi appuntamenti del ciclismo internazionale compresi Giro d’Italia e Tour de France (IBAC).
"Tullio arriva da Paratella, suo amico e compagno di sudore e di polvere sulle rampe dell’Altopiano, e poiché lo vede saldare i tubi di un telaio in maniera secondo lui troppo antiquata lo aggredisce come si merita un sodale simpatico, gli promette la maschera che lui stesso ha inventato per saldare con la fiamma ossidrica. Intanto gli mostra il suo mozzo, il cambio riveduto e corretto fin quasi alla perfezione. Naturalmente, Corrado fa le sue eccezioni, come superbia e bullaggine esigono in questi casi. Tullio rincara mostrandogli un pedale che sembra - con anticipo di mezzo secolo - una scultura pop. Nuove eccezioni di Corrado, ma stavolta solo sul prezzo. Persa la pazienza, Tullio scappa in corte sotto la pioggia battente. Rientra poco dopo tutto ammollato e si toglie il cappello: "sai perchè ho preso tanta acqua? - si rivolge a Corrado - Perchè la qualità del mio cappello è così buona che me lo posso permettere. E sai quanto costa questo cappello? Il doppio di quanto costano i migliori in circolazione. Così il mio pedale, mona di uno!".
Corrado non si arrabbia: la logica di Tullio lo ha pienamente convito. Quando riceverà la maschera, noterà che il suo amico aveva ragione.
— Dal libro “Il gigante e la Lima”, Edito da Campagnolo nel 1993.

Tre grandi (e ormai anziani) telaisti insieme per festeggiare il compleanno di Paratella.
Pelà a sinistra, Paratella al centro e a destra Picchio.
PARATELLA PER LA SQUADRA IBAC 1963/1964
I corridori della squadra
1963
DS Favero Pino
BATTISTINI Graziano
BRASOLIN Bruno
FERRARI Danilo
FONTONA Renzo
GIORZA Bruno
MANCA Antonio
MARTIN Walter
MINETTO Ernesto
OTTAVIANI Angelo
PANICELLI Franco
PELLEGRINI Armando
TRAMONTIN Mario
ZORZETTI Paolo
1964
DS Favero Pino
DS Favero Pino
BALDAN Renzo
BASSI Osvaldo
BATTISTINI Graziano
BONO Ernesto
DE PRÀ Tommaso
DEFILIPPIS Nino
FERRARI Danilo
Giorza Bruno
LIVIERO Dino
OTTAVIANI Angelo
SUAREZ Vasquez (ESP)

Ibac – Molteni 1963
(le due squadre insieme per il Tour de France

La squadra Ibac nel 1963

Osvaldo Bassi con la sua bici costruita da Paratella
Dal 1938 e fino ai primi anni Ottanta, Corrado costruì su misura biciclette da corsa di alta gamma nell’officina-bottega di Torino in via Cuneo 7, l’appartamento in cui viveva al piano superiore.
Torino, città che appartiene da sempre alla tradizione del miglior artigianato italiano. Il suo atelier, come spesso capitava in Italia nelle botteghe dei costruttori, un punto di incontro per i ciclisti locali.
I corridori torinesi erano sempre ansiosi di vedere e toccare con mano le ultime creazioni di questo raffinato e originalissimo costruttore di telai, insieme alle sue bici potevano trovare anche biciclette del leggendario marchio torinese Beltramo.
“Di allievi ne ho avuto uno bravo che per ho lasciato quando c’è stata la crisi della bicicletta, ha preferito i ciclomotori. I giovani non hanno tanta voglia di adattarsi a imparare un mestiere come questo. Poi bisogna fare i conti con i problemi del settore artigiano, con i costi che uno deve affrontare assumendo un apprendista.”
— Corrado Paratella
Nonostante la storia di Paratella sia poco conosciuta ai più al di fuori di Torino, i suoi telai sono oggi rinomati e molto ricercati dai collezionisti, sia per la rarità – Paratella produsse solo 20-30 telai all’anno – sia per il particolare connubio di tecnica costruttiva di massimo livello e una capacità creatività che spesso sfiorava l’opera d’arte. Qualità e non quantità quindi, nell’arco di quarant’anni di carriere di costruttore la sua produzione di telai è stimata intorno ai 700 telai in totale.
Nei quattro decenni di produzione ha sempre perseguito e attuato l’innovazione nella costruzione del telaio, sia dal punto di vista estetico con raffinate e originalissime lavorazioni delle congiunzioni, che tecnico costruttivo sperimentando sia a livello di dettaglio che nella idea stessa di geometria telaio e arrivando a creare dei veri e propri prototipi, in particolare nei telai per ciclocross.
Tra i grandi telasti italiani lo si può quindi annoverare tra i pochissimi (meno delle dita di una mano) che sono stati in grado di rimanere al massimo livello per quattro decenni mantenendo al contempo una continua evoluzione del telaio.
È importante approfondire questo punto perché davvero interessante. L’unico costruttore, tra la rosa ristretta dei migliori costruttori italiani del iperiodo Eroico.
Paragonabile a Paratella per longevità della carriera e continua evoluzione fu Drali di Milano o Marastoni di Reggio-Emilia. Oppure, rimanendo sempre nell’Olimpo dei telaisti Eroici si può prendere ad esempio il marchio Masi che, parlando sempre di telai in acciaio, costruì i migliori telai a livello internazionale per oltre 30 anni, ma che va considerato per struttura e dimensioni più come azienda che come una piccola bottega artigianale con tutti i limiti che quest’ultima comportava. Francesco Galmozzi, grande innovatore nei primi 20 anni di produzione, ma scelse un approccio decisamente più conservatore durante il resto della sua carriera quando l’azienda si ingrandì. Sante Pogliaghi riuscì nell’innovarne lo stile dello zio Brambilla nei primi anni e poi si limitò ad aggiornamenti tecnici fino agli ultimi anni prima del suo abbandono, quando lasciò spazio a cambiamenti importanti che furono però più conseguenza dalla spinta creativa dei suoi collaboratori che farina del suo sacco. Come Galmozzi anche Giuseppe Pelà si attenne per tutta la carriera quello che per lui era il miglior risultato possibile, aggiornando senza reali innovazioni.
Con questi confronti non si vuole certo dire che Paratella fosse meglio o peggio dei suoi migliori colleghi, la scelta di Galmozzi e degli altri colleghi di mantenere per tanti anni praticamente invariati i propri telai ha infatti valore e ragion d’essere, quando il telaista è convinto che il risultato sia il migliore possibile per il ciclista perchè dovrebbe cambiare seguendo le mode del momento o inutili cambiamenti “estetici”?
Ma è importante sottolineare come Paratella sia riuscito avere una carriera così lunga costruendo sempre i telai di propria mano e quindi di fatto rimanendo in una dimensione veramente artigianale. Un risultato davvero notevole anche solo per le condizioni insalubri delle officine di quel tempo, oltre che per le fisiologiche difficoltà economiche e finanziarie delle piccole botteghe artigianali, ma soprattutto per avere avuto il coraggio di accogliere le innovazioni derivate dalle nuove tecnologie nel corso dei decenni e mettere in continua discussione il risultato del proprio lavoro.
“Ha cominciato il nonno. Era fabbro, costruiva tricicli. Gli piacevano però le donne, a noi rimase solo il mestiere”.
— Corrado Paratella
Ogni telaio costruito da Paratella è firmato da un numero seriale progressivo. Il registro originale comprensivo di tutti i seriali e relativi nomi dei proprietari, corridori professionisti compresi, è oggi conservato da un collezionista torinese. Nella maggior parte dei casi nella numerazione di 4 cifre è compreso l’anno di produzione.
Paratella parlava con calma, con inflessioni “torinesissime”. Era restio a parlare dei ricordi ma si scaldava se doveva spiegare come nasce una bicicletta da fare su misura. Allora tirava fuori il metro, si soffermava sui muscoli della coscia, le spinte, le leve. Tirava fuori turbi nerastri destinati a diventare forcelle, un giunto che andrà incastrato secondo tabelle che lui stesso aveva chiare in mente e che erano il risultato di una lunghissima esperienza. Il prezzo di una sua bicicletta, costruita e personalizzata a mano pezzo per pezzo, oscillava tra le 30.000 a 1.000.000 di Lire, non molto se confrontato con prezzi di marchi nazionali che offrivano a prezzi altissimi biciclette raffinate ma pur sempre di serie.
In bottega riparava anche alcune biciclette, ma solo per gli amici, perché quelli erano ancora qualcosa di importante nella vita del borgo. Quando però doveva preparare un telaio speciale sbarrava la porta perchè il silenzio, la clausura, erano necessarie al rito. E la bottega si faceva santuario, per un ennesimo miracolo che la tecnica più sofistica non potrà mai eguagliare.
“Il mio unico rimpianto è non avere figli, con me finisce il mestiere. Via io si chiude.”
— Corrado Paratella
IL DESIGN DEI TELAI PARATELLA
Paratella possedeva una profonda consapevolezza tecnica che maturò con l’esperienza nei telai più tecnici come stayer, pista e ciclocross, dal lavoro di meccanico per squadre professionistiche, dalla collaborazione con grandi campioni e dal rapporto unico di scambio con Tullio Campagnolo.
Come citato sopra la sua vera impresa, quasi unica nel panorama dei costruttori italiani del periodo Eroico, fu quella di unire questo saper fare tecnico con soluzioni estetiche originali e riconoscibili create negli anni ’40 e tradotte con coerenza attraverso oltre quattro decenni di produzione. Tutto questo senza mai rinunciare a mettersi in discussione, accogliendo le nuove soluzioni tecniche offerte dall’evoluzione della tecnologia delle leghe di acciaio, degli accessori per il telaio e dei componenti, e mantenendo una continua evoluzione della propria idea di telaio da corsa, da pista e da ciclocross.
IL NODO SELLA
Come per lo sterzo anche la congiunzione del nodo sella Paratella è sempre stato finemente lavorata con originali e raffinati arabeschi in stile Liberty. Le pendine nascono a fetta di salame già a fine anni ’40 per allungarsi nella forma a fine metà anni ’50. Dalla fine degli anni ’60 le teste delle pendine assumono il disegno definitivo con una punta corta, svasata e arrotondata. Il seriale era sempre impresso su questa congiunzione.
FORCELLINI
Paratella ha sempre approfondito il disegno dei forcellini posteriori e anteriori. Per tutto l’arco della carriera ha sperimentato soluzioni diverse e inedite, modificando quelli prodotti dalla Campagnolo e dalla Simplex. In alcuni casi ha firmato il design imprimendo il proprio logotipo sul forcellino modificato.
Forcelle
La forcella, forse la parte più complessa e importante di un telaio, è al centro del lavoro di Paratella. Anche in questo caso lo stile è rimasto coerente durante quattro decenni, nonostante abbia sempre sperimentato diverse soluzioni.
Congiunzioni sterzo
Fino ai primi anni ’70 sulla congiunzione alta dello sterzo Paratella inseriva sempre un oliatore. Il fine disegno arabescato in stile Liberty degli anni ’40 e ’50 si asciuga e semplifica nel corso degli anni rimanendo comunque sempre coerente e decisamente più ricco e complesso di quelli impiegati dai colleghi sui telai dell’epoca.
Scatole movimento centrale
Finemente lavorate e ben fatete, il particolare disegno degli attachi a tubi e foderi è sempre coerente con le altre congiunzioni.
Ponticelli
La filosofia di Paratella, coerenza e innovazione, venne applicata con sapienza anche il design dei rinforzi sui ponticelli del freno e tra i foderi posteriori.
Dettagli
Innovazione e cura anche nei piccoli particolari.

Il registro Paratella con tutti i seriali dei telai con i relativi nomi degli atleti dagli anni ’40 agli anni 80.

Paratella costruita per la squadra IBAC del 1963, restaurata. In base al numero di serie, ai dettagli del telaio, al colore e alla storia che l’accompagnava, si ipotizza che il corridore fosse Bruno Giorza, uno dei due corridori della squadra IBAC di Torino, l’altro era Nino Defillipis che corse per la Carpano nel 1963, poi per l’IBAC nel 1964. Giorza corse per l’IBAC nel 1963 e nel 1964 – Foto Douglas Charles
ALPI
ALPI
FAENZA, PRIMI ANNI ’30 – 1959
Ciclomeccanica Antonio Alpi / Biciclette su misura
Fonti: Intervista ad Armando Castiglioni, meccanico per Alpi dal 1946 al 1952 / Artigiani e Biciclette in Romagna nel ‘900, di Ivan Neri, W. Berti Editore
Ha collaborato con: Ortelli, Fratelli Cavina, Nino Baldini, Testi, Villa, Suzzi, Vicini, Servadei
La versione aggiornata è disponibile su Quaderni Eroici.
Get the complete version on Quaderni Eroici.
Antonio Alpi, soprannominato Tugnazì nacque nel 1896 a Faenza e scomparve prematuramente nel 1959. Fu uno dei migliori artigiani costruttori di biciclette italiani nell’epoca Eroica.I telai che Alpi costruì a cavallo tra gli anni '40 e gli anni '50 sono sicuramente da considerare, sia dal punto di vista estetico che tecnico, tra i migliori del disponibili in Italia in quegli anni.
Se il livello era quello dei migliori maestri costruttori dell'epoca, l'unicità di Alpi fu quella di riuscire a mantenere una forte coerenza stilistica durante tutto l'arco della sua produzione e, allo stesso tempo, rendere ogni suo telaio un'opera unica lavorando con creatività sui disegno delle congiunzioni.
Il suo talento e le sue bici furono oggetto del desiderio per i corridori dell’epoca così come per diversi importanti marchi italiani del Nord, che provarono invano ad assumerlo come direttore di produzione. A fianco delle bici firmate a proprio nome collaborò con altri costruttori della Regione Emilia-Romagna come Vicini, Servadei, Ortelli, Fratelli Cavina, Nino Baldini e Suzzi. Nonostante la sua carriera di costruttore durò poco meno di trent’anni e fu ostacolata prima dalla seconda guerra mondiale e poi dalla crisi del mercato delle bici che seguì per tutti gli anni ‘50, Alpi riuscì nel costruire telai di altissimo livello ed a esprimere uno stile innovativo e originale per l'epoca. Molti giovani talenti hanno corso come professionisti con le sue biciclette, tra questi Ercole Baldini che conquistò il record dell'ora con una sua bici e Giuseppe Minardi.
La carriera di Alpi iniziò negli anni ’20 come assistente da Ortelli a Faenza. Fu in quella officina che Antonio poté imparare il mestiere lavorando direttamente con Lazzaro Ortelli, ex fabbro e abilissimo artigiano, famoso per una eccezionale abilità manuale e precisione assoluta. Dagli anni ’20 agli anni ’40 dalla “scuola” Ortelli uscirono anche altri importanti telaisti come Aride de Fanza che costruì i telai per la Chiorda Salvarani.
Nei primi anni ‘30 Alpi aprì la propria attività a Faenza. Così come anche altri suoi colleghi a quel tempo l’attrezzatura necessaria se la costruì da solo per realizzare i primi telai firmati a proprio nome, così come quelli destinati ad altri marchi dell’Emilia e della Romagna. Già dai suoi primi telai dimostrò un importante talento insieme a creatività e precisione acquisiti dall’esperienza con Ortelli.
Nel 1943 fu assunto come capo meccanico alla Cicli Astor, azienda faentina fondata nel 1929 che, con una ventina di dipendenti, aveva raggiunto una dimensione notevole rispetto ai concorrenti del territorio.
I telai Alpi colpivano allora come oggi, per la precisione e la qualità nella costruzione del telaio, oltre che per la raffinata e originale lavorazione delle congiunzioni, e per l’abilità nella limatura. Lavorò per tutti i più importanti marchi dell’Emilia-Romagna che spesso si affidavano alle sue capacità per offrire biciclette speciali ai propri clienti. Nell’immediato dopo guerra importanti marchi del Nord Italia cercarono di assumerlo ma, a dimostrazione del suo carattere intraprendente, rifiutò sempre ogni incarico preferendo rimanere indipendente e autonomo.
Dal 1945 al 1952 fu assistito nelle fasi di saldatura in officina da Armando Castiglioni di Faenza. In quegli anni dalla sua bottega uscì uno tra i primi prototipi di supporto a rulli per l’allenamento dei ciclisti nei mesi invernali.
A cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50 Alpi, come molti colleghi a quel tempo, riuscì a creare la propria squadra nella categoria dilettanti, reclutando le giovani promesse della zona, alcuni dei quali, come il faentino Giuseppe Minardi, si confermarono poi poi dei veri e propri campioni.
Alpi affiancava alla passione per la bici quella per le motociclette, fu però quest’ultima ad essergli fatale quando, una notte del 1959 si scontrò in moto contro un trattore che avanzava sulla strada senza luci. A causa delle conseguenze dell’incidente morì a soli 63 anni quando era all’apice della sua carriera di artigiano, lasciando una preziosa eredità di bellissimi telai, molti dei quali furono poi utilizzati e rimarcati da altri marchi della Regione, a noi rimane la curiosità di cosa avrebbe potuto fare con le innovazioni tecnologiche che seguiranno negli anni successivi.
LA TECNICA DEL DISEGNO A RILIEVO SULL’ACCIAIO
Nell’officina di Ortelli Alpi imparò anche l’originale tecnica di realizzare scritte in rilievo colando dell’acido attraverso una maschera direttamente sul tubo d’acciaio prima di essere saldato al telaio, sistema che poi continò a studiare e approfondire fino a creare, nel 1936, un telaio interamente decorato con questa tecnica.
“Alpi abbelliva i telai utilizzando delel etichette, su cui, ancora prima della costruzione del triangolo portante della bici, colava un acido che face va risaltare la scritta con il suo nome. Qualche pezzo per amici lo fece addirittura con disegni in rilievo su tutto il telaio, penso ne abbiamo fatti 3 o 4 al massimo. Un altro abbellimento che apportava ad ogni sua opera, era la scanalatura delle forcelle a mano con uno particolare attrezzo costruito che si era costruito”. – Armando Castiglioni
IL DESIGN DEI TELAI ALPI
Oltre al fregio Alpi rendeva unici i propri telai con diversi particolari originali, spesso come una vera e propria firma, facilmente riconoscibile e a prova di imitazioni.
CICOGNANI
CICOGNANI
Forlì 1922 – 1962
Fonti: Camera di Commercio Forlì / Classic Randezvous
Palmarès: 1924 Gran Coppa di Paisley (Inghilterra) / 1925 Campionato Romagnolo Allievi / 1931 Campionato Emiliano Dilettanti (…)
Della Cicognani Romeo di Forlì, attiva dal 1922 al 1962, purtroppo si hanno poche notizie, dal catalogo dei primi anni ’30 dove sono evidenziati i successi agonistici già a partire dal 1924 in Inghilterra e dall’unico esemplare di bici di cui abbiamo immagini è però possibile intuire che l’azienda fosse in possesso di un un alto livello tecnico.
La bicicletta presentata in questa pagina è un modello da pista, nelle decals compare la scritta “Tipo Montherly 1933” e sul tubo sterzo è pantografato il numero di serie 1310, facendo due conti la produzione dell’officina nella prima decina d’anni di attività non superava quindi le 250 biciclette all’anno.
Il telaio è quello di una bici professionale costruito con grande cura dei dettagli, saldato con tubi in acciaio Columbus completamente cromati e serie sterzo è integrata nel telaio. Il movimento centrale è marcato Bollea Saluzzo mentre il mozzo anteriore riporta il marchio dell’officina romagnola.
In Francia a Montherly nel 1933 si corsero i Mondiali su strada e gli unici due titoli furono assegnati al francese George Speicher tra i professionisti e lo svizzero Paul Egli nei dilettanti, sfortunatamente il catalogo in nostro possesso con l’elenco dei piazzamenti ottenuti dal marchio si ferma all’anno precedente e non possiamo sapere se uno dei due atleti corse in sella ad una bici Cicognani.
Se avete notizie di questo interessante e misterioso marchio potete scrivermi a info@frameteller.it
Catalogo Cicognani, primi anni ’30
Subiamo (Arezzo) / Gran premio Mercato Saraceno / Criterium Dilettanti Camaldolesi / Circuito della Valle del Secchio (Lucca) / Giro della Cartagena (Gallicano) / Gran Premio Coreglia antelminelli / Coppa Togneri (Barga) / Coppa Equi Fornaci di Barga / Campionato Toscano Indipendenti / Coppa Verzam / Circuito del Comune di Bagni di Lucca 1925 Circuito dei tre fiumi (Forlì) / Omnium Dilettanti (Ravenna) / Targa Cicognani / Coppa Antella (Firenze) / Coppa Landucci (Lucca) Coppa Gabriella Zucca (Firenze) / Livono-Volterra e ritorno 1927 Coppa Fratelli Mussolini S, Marino in Strada / Coppa Faticar non Fietar (Bologna) / Coppa Comune di Savignano / Coppa Bernardi-Godo (Ravenna) / Coppa Città di Rocca San Casciano 1928 Coppa Babini (Fustigano) 1930 Bologna-Pianoro e ritorno / Bologna Bagni della Porretta / Campionato Vittorie: Romagnolo Allievi / Giro del Monte Trebbio (Dovadola) / Coppa Leardo Guerra (Borgo Buggiano) / Coppa Gavioli (Parma) Coppa Cerri (Pistoia) / Criterium Tricolore (Bologna) / Circuito Giardini Margherita (Bologna) 1931 Firenze-Figlino Valdarno / XX Giro dell’Emilia e Campionato Emiliano Dilettanti / Giro del Mugello / Coppa Città di Cesenatico / Eliminatoria Regionale (Coppa Italia) / Criterium d’apertura (Rimini( / Campionato Romagnolo Allievi / Criterium Tricolore (Bologna) 1932 Coppa Ettore Panini (Forlì) Selezione Emiliana per il Gran Premio dei giovani di velocità / Giro della Provincia di Ferrara.
TAUREA
TAUREA
Torino 1947 – ca 1952
Fonti: ricerca archivistica
Agonismo: Squadra professionisti 1950/1951
Se la Taurea merita di essere ricordata come uno dei più interessanti marchi di biciclette italiani a cavallo degli anni ‘40 e ’50, è sicuramente per il talento del costruttore torinese che si occupò della progettazione di tutti i modelli, il maestro Giuseppe Pelà.
Non ci sono certezze sulla data di apertura e di chiusura dell’azienda, ci sono testimonianze di Taurea degli anni ‘30 ma dato che non è stato possibile visionarle dal vero o in fotografia al momento non vengono prese in considerazione in questa ricerca.
Per la data di fondazione si fa fede all’atto di deposito del marchio avvenuto nel febbraio del 1947. Pare che non siano stati ritrovati cicli Taurea databili oltre il 1952, è quindi possibile che intorno a questa data l’azienda abbia cessato l’attività.
Come detto a dirigere la progettazione e la costruzione dei telai l’azienda torinese chiamò Giuseppe Pelà, in quegli anni ancora nella prima fase della sua formidabile carriera di telaista e già molto conosciuto e impegnato a Torino sia con la collaborazione in Benotto che con la co-fondazione della Edelweiss.
Dalla qualità delle biciclette recuperate risulta evidente che Pelà alla Taurea riuscì ad esprimere al meglio le sue doti di designer e costruttore, realizzando telai raffinati con caratteristiche tecniche originali e innovative per l’epoca. Pelà costruì direttamente i telai del modello corsa, lasciando il resto della produzione al team di operai Taurea ma sempre sotto il suo controllo e direzione.
Sempre ad altissimo livello anche lo sforzo dell’azienda nel campo agonistico attraverso la creazione della squadra professionisti e la partecipazione ai Giri d’Italia del 1950 e 1951 (a quel tempo solo 15 marchi potevano permetterselo).
Il marchio “Taurea R.L.” fu depositato per la prima volta il 20 febbraio 1947 presso l’Ufficio commerciale e dell’Industria di Torino. L’indirizzo di via Vassalli Fendi 32 viene cambiato in Via delle Orfane 2 in un secondo atto effettuato ad un solo mese di distanza.
Il primo documento fu effettuato per deroga attraverso un mandatario mentre il secondo è firmato direttamente da un amministratore dell’azienda e il nome “Taurea” cambia in “Taurea società per costruzioni meccaniche”. Sempre nel secondo documento scompare “automobili” tra le categorie commerciali sostituita da “tubi in acciaio”, le categorie definitive diventano quindi: tubi in acciaio, velocipedi, motocicli, pneumatici e selleria, macchine ed apparecchi diversi e loro parti.
Il primo atto di deposito del nome e del marchio L.R. Taurea. 20 febbraio 1947. Camera di Commercio di Torino.

1949
SACCHI Marino
1950
Dir. Carlo Graglia
ASTRUA Giancarlo
FONDELLI Ugo
FRANCHI Franco
MAGGINIa Sergio
MARTINI Alfredo
ROSSELLO Vincenzo
ROSSELLO Vittorio
1951
ASTRUA Giancarlo
BARONI Mario
CONTERNO Angelo
FONDELLI Ugo
MARTINI Alfredo
PETRUCCI Loretto
PONSIN Orfeo
ROSSELLO Vincenzo
ROSSELLO Vittorio
DETTAGLI TELAI TAUREA
Fin dai primi esemplari del 1947 è evidente lo stile di Pelà nel design dei modelli da corsa e sportivi. Sono questi probabilmente gli anni in cui la creatività del maestro telaista raggiunge il massimo livello della sua lunga carriera e nonostante sia ancora giovane, a quasi 25 anni prima del suo ritiro, la qualità del disegno e delle finiture esprimono una notevole originalità e maturità tecnica. Dai dettagli visibili sulle biciclette ritrovate sembra probabile che solo una parte dei telai corsa furono costruiti direttamente da Pelà, mentre il resto della produzione era affidata alla squadra di operai Taurea sotto il suo rigido controllo.
Caratteristiche design telaio:
1 – Testa forcella “Pelà” con riga e pallino per i telai corsa e solo riga per il modello sport e turismo.
2 – Passacavi sul tubo orizzontale dal 1947, soluzione sicuramente innovativa a quei tempi. I passacavi sul tubo orizzontale sono posizionati in diagonale verso il basso, unica eccezione il modello del 1947 saldati a 90°. A partire dal 1951 vengono aggiunti anche i passacavi sul tubo diagonale.
3 – Congiunzioni con svuoti a forma di cuore (non su tutti i modellin e telai)
4 – Rinforzi sui foderi della forcella nei modelli corsa, assenti sui telai mezza corsa o sportivi. La forma del triangolo è già quella tipica di Pelà, ad eccezione del modello del 1947 dove i due triangoli hanno linee curve e uno svuoto circolare al centro.
5 – Personalizzazione estetica dei forcellini posteriori con 3 punte.
6 – Acciaio “Libellula” (visibile il marchio inciso sulla forcella di alcuni telai)
Componenti:
Personalizzati con il marchio Taurea, unica eccezione forse per la bicicletta C1.4210 da corsa databile 1947, ritrovata montata con componenti di qualità superiore e senza marcatura, forse perché destinata ad un corridore esigente o perché la personalizzazione dei componenti iniziò solo l’anno successivo. Guarnitura Gnutti (nelle 2 versioni fine ‘40 e primi ‘50), mozzi Campagnolo Gran Sport, pipa in ferro e piega in alluminio senza marca o Ambrosio, pinze e leve freni Balilla, sella Aquila, movimento centrale, collarino reggisella e serie sterzo Magistroni Super Corsa. Cambio Campagnolo Cambio Corsa per la fine degli anni ‘40, Parigi Roubaix e Simplex per i modelli dal 1950 al 1952. Pedali Sheffield o FOM.

TIMELINE EVOLUZIONE TELAIO TAUREA
- 1947 Passacavi saldati a 90° sul lato sinistro del tubo orizzontale
- 1947 Rinforzi foderi forcella con forma curva e svuoti circolari
- 1947 Svuoto del nodo sella a forma di triangolo
- 1949 Passacavi saldati sulla diagonale basse del lato sinistro del tubo orizzontale
- 1949 Rinforzi foderi forcella di forma triangolare tipica di Pelà
- 1950 Triangolo svuoto del nodo sella con due fori circolari ai vertici superiori
- 1951 Vengono aggiunti anche i passacavi anche sul tubo diagonale
- Forcellini:
1947 al 1951 Campagnolo Cambio Corsa
1950 Campagnolo Parigi Roubaix
1951 Campagnolo primo tipo con vite da registro da 4m
1951/52 Simplex Tour de France
1952 Brev. Simplex Competition (Simplex Italia)
CONGUNZIONI
Molti dei telai Taurea, sia corsa che sport e turismo, sono arricchiti da eleganti svuoti sulle congiunzioni a forma di cuore.
PASSACAVI
A partire già dal 1947 sui telai Taurea sono saldati passacavi sul fianco del tubo orizzontale, dal 1949 in posizione diagonale più in basso e nel 1952 sotto al tubo.
Dal 1951 vengono aggiunti i passacavi su tubo diagonale, soluzione adottata nello stesso periodo da Pelà anche sui telai Girardengo.
FORCELLA
Tutti i telai corsa hanno la testa forcella tipica di Pelà con riga e pallino al centro (unica eccezione per il telaio C3 5341, ultima foto), solo una o due righe parallele per i modelli sport e turismo.
A partire dal 1949 i rinforzi dei foderi della forcella hanno la forma triangolare tipica di Pelà, leggermenti diversi quelli sui primi modelli del 1947 con una linea più curva e uno svuoto circolare al centro.
NODO SELLA E NUMERO SERIALE
Lo svuoto sul retro del nodo sella è di forma triangolare con il foro circolare largo sul vertice inferiore, riconoscibili i modelli costruiti a partire dal 1950 per il triangolo con 2 cerchi ai vertici superiori.
Tutti i telai Taurea erano marcati con numero seriale. La numerazione era sicuramente progressiva ma non ricalcava esattamente il numero di telai prodotti né la data di costruzione degli stessi.
Sicuramente la prima lettera indica il tipo di modello: C corsa, CC mezza corsa, CS Sport, S e SC Turismo. Il numero compreso tra la prima lettera e il punto (ad esempio “C1. – C2. … C7.” aumenta progressivamente nel tempo anche se non riflette l’anno esatto di produzione.
Attraverso l’analisi delle caratteristiche tecniche dei telai è stato comunque possibile associare (indicativamente) il seriale all’anno di creazione del telaio.
Per quanto riguarda i numeri che seguono dopo il punto (ad esempio C1.17784), sembra che fossero azzerati ogni volta che cambiava il numero prima del punto e potrebbero riferirsi al numero sequenziale di produzione di tutti i cicli (compresi i modelli donna e bambino), la produzione Taurea arrivava quindi a numeri vicini ai 20.000 cicli all’anno, contando ovviamente tutti i modelli.
Nonostante la notevole dimensione dell’azienda e la qualità dei prodotti, la produzione sembra non protrarsi oltre il 1952, non ci è dato sapere al momento se se la causa della chiusura dell’azienda fu legata a criticità finanziarie o di altra natura.
OLIATORI
Oliatore sempre presente sul lato destro della scatola del movimento centrale. In molti telai corsa, ma non in tutti, l’oliatore è installato anche sull’interno del tubo sterzo.
FORCELLINI
Altro particolare estetico applicato da Pelà ad alcuni telai Taurea, sono i 3 denti sulla curva dei forcellini posteriori.
1947 al 1951 Campagnolo Cambio Corsa
1950 Campagnolo Paris Roubaix
1951 Campagnolo primo tipo con vite da registro da 4m
1952 Simplex Tour de France
1952 Brev. Simplex Competition (Simplex Italia)
FREGIO E DECALS
Fregio in ottone con merli e cornice in bianco dal 1947 al 1950, dal 1950/51 iniziano a comparire quelli in metallo con merli e cornice in giallo negli anni successivi. Decals applicate ai tubi diagonale e verticale, fregio sul tubo sterzo.
COMPONENTI
A partire dal 1948/1949 molti componenti sono marcati Taurea: pinze freni, movimento centrale, fascetta stringisella, serie sterzo, attacco manubrio (in acciaio fino al 1951, Ambrosio alluminio dal 1952)
Montaggio di serie:
Guarnitura Gnutti (nelle 2 versioni fine ‘40 e primi ‘50), mozzi Campagnolo Gran Sport, pipa in ferro e piega in alluminio senza marca (Ambrosio alluminio nel 1952), pinze e leve freni Balilla, sella Aquila, movimento centrale, collarino reggisella e serie sterzo Magistroni Super Corsa. Cambio Campagnolo Cambio Corsa per la fine degli anni ‘40, Parigi Roubaix e Simplex per i modelli dal 1950 al 1952. Pedali Sheffield o FOM.
TAUREA C1.4210
Tipo: Corsa
Anno: 1947/48
Foto: Frameteller
Dettagli particolari:
– Alleggerimenti a forma circolare nei rinforzi della forcella
– Congiunzioni più corte e senza svuoti a forma di cuore
– Numero “0” sotto la scatola del movimento centrale e sul tubo della forcella
– Passacavi a metà del fianco del tubo orizzontale
– Mozzi Gran Sport marcati con la prima versione del logo (pre 1950)
– Coni dei mozzi marcati 1947
Ritrovata montata con componenti coevi non marcati Taurea:
Leve e pinze freni Universal 666, movimento centrale e serie sterzo Magistroni, pedali Sheffield, guarnitura Gnutti, cerchi Nisi primo tipo (logo con lettera “A” di forma appuntita)
Cambio: Campagnolo Cambio Corsa
Stato al momento del ritrovamento
– Vernice conservata, decals assenti
– Manubrio da passeggio
– Leve freni assenti
– Pedali assenti
– Pinze freni Universal 666
– Cambio Campagnolo “due leve” corsa
– Guarnitura Gnutti
– Movimento centrale Magistroni Nik Crom
– Serie sterzo Magistroni decagonale Nik Crom
– Ruote con mozzi Campagnolo GS primo tipo e cerchi Nisi Moncalieri primo tipo
TAUREA C1.8816
Tipo: Corsa
Anno: 1949
Stato: Conservata
Foto: Paramanubrio
Cambio: Campagnolo Cambio Corsa (sostituito)
Forcellini: Campagnolo
TAUREA P1.13157
Tipo: Pista
Anno: 1949
Stato: Conservata
Foto: Paramanubrio
TAUREA C1.13153
Tipo: Corsa
Anno: 1950
Stato: Conservata
Cambio: Campagnolo 2 leve
Forcellini: Campagnolo
TAUREA C1.17784
Tipo: Corsa
Anno: 1950
Stato: Conservata
Foto: Paramanubrio
Cambio: Campagnolo Paris Roubaix
Forcellini: Campagnolo
TAUREA C3.4351
Tipo: Corsa
Anno: 1951
Stato: Conservata
Foto: Santonastaso
Cambio: Simplex
Forcellini: Simplex?
TAUREA SC3.6932
Tipo: Turismo
Anno: 1951
Stato: Conservata
Cambio: Simplex TDF
Forcellini: Simplex?
TAUREA C3.880X
Tipo: Corsa
Anno: 1951
Stato: Conservata
Foto: Paramanubrio
Cambio: Simplex TDF
Forcellini: Simplex Competition
TAUREA C4C.10563
Tipo: Mezza corsa
Anno: 1952
Stato: Conservata
Foto: Papero
Cambio: Campagnolo Cambio Corsa
Forcellini: Campagnolo
TAUREA C5.8822
Tipo: Corsa
Anno: 1952
Stato: Conservata
Foto: Pablo D’Agostino
Cambio: Campagnolo Cambio Corsa
Forcellini: Simplex Tour de France
TAUREA C7S.7734
Tipo: Mezza corsa
Anno: 1947
Stato: Conservato
Foto: Papero
Forcellini: Campagnolo Cambio Corsa
Cambio: Campagnolo Cambio Corsa
CIMATTI
CIMATTI
Bologna 1932 – primi anni ’70
Fonti: Archivi ciclismo / il Resto del Carlino / Wikipedia
Palmarès: Maco Cimatti medaglia d’Oro su Pista alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 / 4 tappe al Giro d’Italia / Giro dell’Emilia 1934 / Milano-Sanremo 1937, 3° classificato
Agonismo: Squadra professionisti Cimatti: Casola, fratelli Zanazzi, Cecchi, Barozzi
Marco Cimatti nasce il 13 febbraio 1913 a Bologna. La sua forza come ciclista emerge già nella categoria dilettanti e, a soli 19 anni, viene selezionato per la decima Olimpiade dove, in sella ad una bici costruita dal concittadino Amleto Villa, vince l’oro nell’inseguimento a squadre alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932.
Atleta poliedrico, valido passista, veloce e ottimo pistard, si è distinto in diverse specialità, oltre all’Oro Olimpico nella sua carriera ha vinto anche quattro tappe nei Giri d’Italia del ’37 e ’38 e un Giro dell’Emilia nel ’34. Si è ritirato dalle corse nel 1940, a soli 27 anni, a causa dell’inizio della guerra.
Nel 1937, anno in cui giunge terzo nella Milano-Sanremo, Cimatti insieme alla moglie Gemma Parini apre l’officina per la riparazione e la costruzione di biciclette in via Lame a Bologna. Dal 1948 al 1950 ha dato vita anche alla omonima squadra di professionisti, tra le sue fila alcuni validi corridori come Casola, i fratelli Zanazzi, Cecchi e Barozzi. Alla vigilia della guerra l’impresa ha già superato la dimensione artigiana ed è in grado di rispondere a incarichi anche di notevole entità. Nel 1945, riparati i danni subiti dai bombardamenti, l’azienda ritorna operativa e viene ampliata con un altro negozio in via Ugo Bassi. L’anno seguente contando già 30 operai l’officina viene trasferita in uno spazio più grande in via Casarini, dove alla produzione di biciclette viene aggiunta quella di telai per micromotori.
La Cimatti partecipò alle grandi competizioni come Giro d’Italia e Tour de France dal 1947 al 1950. Nel 1948 riuscì nell’impresa di competere con le favorite Bianchi, Legnano e Wilier, rispettivamente guidate da Coppi, Bartali e Magni. Nel Giro del 1956 Ezio Cecchi della Cimatti perse la maglia rosa solo all’ultima tappa a causa di una foratura a causa della quale venne superato in classifica da Magni per soli 11 secondi, ancora oggi il minor distacco tra primo e secondo classificato nella storia del Giro d’Italia. Tra i corridori che hanno corso con la maglia Cimatti, Ezio Cecchi, Renzo Zanazzi, Danilo Barozzi, Pietro Giudici.
Negli anni ’50, quando i sintomi della crescita del benessere diventavano concreti e l’Italia si avviava verso il boom economico, Cimatti decide di affiancare all’officina anche una fabbrica per produrre ciclomotori e motociclette che in breve tempo si affermerà sul mercato nazionale e internazionale.
Marco Cimatti ci ha lasciati il 21 maggio 1982.


Il palcoscenico olimpico Rose Bowl di Los Angeles, 1932 cerimonia inaugurale.


La squadra italiana alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932.
Medaglia d’oro nei 4000 inseguimento a squadre.
Cimatti al centro (sopra) il primo a destra (sotto).

Un particolare brevetto Cimatti del 1946. Il pedale, presentato al Salone di Milano del 1946, aveva il vantaggio di eliminare il famoso “punto neutro”.
Illustrazione di Rebour per la rivista francese “Le Cycle” 1946.

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Fregi Cimatti
COLNER
COLNER
San Lazzaro di Savena (BO) 1976 – 2002?
Fonti: Reclus Gozzi (Rauler) / Troppebici / Classic Randezvous / Giroditaliadepoca /
La cicli Colner (COLNago + ERnesto) nasce ufficialmente nel 1974, produzione dei telai e distribuzione delle biciclette complete venne affidata alla Velosport, di San Lazzaro di Savena in provincia di Bologna. Il nuovo marchio dava a Ernesto Colnago la possibilità di correre con due squadre contemporaneamente, dal 1974 l’UCI permise infatti la possibilità di iscrivere una sola squadra di professionisti per marchio. Il modello di business era invece quello di una linea biciclette di livello medio alto con una produzione completamente indipendente dalla Colnago, da inserire sul mercato ad un prezzo leggermente più basso e con una diversa distribuzione, in particolare nelle regioni del sud Italia.
Le Colner, contraddistinte dal simbolo dell’Asso di Picche raggiunsero presto un notevole successo commerciale, tanto che Mario Martini di Lugo ne verniciò 700 solo nel primo anno. Le bici, costruite con tubi Columbus SL ed equipaggiate con gruppi Campagnolo, erano di alto livello, molto simili alle cugine Super della Colnago e, in alcuni casi, anche più leggere, questo almeno nei primi anni di produzione. Probabilmente il progetto fu messo in cantiere da Colnago già uno o due anni prima, sono conosciuti infatti dei telai costruiti antecedentemente al 1974 già con l’asso di picche pantografato insieme al trifoglio Colnago, dopo la presentazione ufficiale del marchio i due simboli non furono mai più affiancati sullo stesso telaio.
Colner speciali Squadra Corse
Oltre alle bici di serie, costruite ed assemblate esternamente alla Colnago da artigiani come Romani di Parma, Technotube e Simoncini, la Colner offriva anche bici su misura per diverse squadre, come la belga Usboerke-Colner nel’74/75 e l’italiana Vibor nel ’77/78, per la quale correvano l’allora esordiente Visentini, come pure Boifava e Panizza.
Questi telai speciali erano costruiti e assemblati dalle esperte mani dei Fratelli Gozzi (Rauler) di Reggio Emilia e da Lupo Mascheroni.

Graeme Gilmore con maglia Squadra Usboerke-Colner e bici Colner, i dettagli delle congiuzioni ricordano quelle di produzione Gilardi
"My bike builder was Lupo Mascheroni from Milan - he built all Patrick Sercu’s bikes as well. He set up & kept a jig for my bikes - so I would just ring him & he would make the same all the time - my Sixday bikes were made more like a sprinters bike with the seat angle steeper than a “normal” 6 bike ! Which suited me better as I only rode 50mm behind the bracket! Forgot the degrees now ! But I rode the same shape bikes in over 100 sixes ! Lupo just changed the decals & paint job on the frame to match the bike sponsor from the team I was riding that year !"
— Graeme Gilmore
Squadra Usboerke Colner, 1975

Robert Bill su bici Colner, medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre alle Olimpiadi di Mosca del 1980

Prime decals Colner, firmate con marchio Colnago.

Le primissime Colner mantengono il simbolo Colnago sotto alla scatola del movimento centrale.

Il simbolo Colner forato nella scatola del movimento centrale.

Colner strada anni ’70 / Foto Ciclicorsa

Colner pista anni ’70
Colner 1973 per Eddy Merckx. Sul telaio, costruito per la squadra corse Molteni, sono visibili sia gli Assi di Picche sulle congiunzioni e sulla testa forcella, sia l’Asso di Fiori Colnago sulla scatola del movimento centrale. Foto Simone d’Urbino.
DOSI
DOSI
Imola (BO) 1979 – In attività
Walter Dosi, classe 1954, corridore nella categoria dilettanti fino al 1975 per la Giacomazzi è stato meccanico e saldatore per diversi team tra i quali Giacobazzi, Fiorelli, Fancucine e Magniflex.
Nel 1979 apre l’officina a Imola nella quale ha costruito per un ventennio raffinatissimi telai come il Futura, realizzato da Dosi a metà anni ’80 con speciali tubi disegnati da Luciano Paletti di Modena e prodotti dalla ORIA con una particolare forma schiacciata, sono infatti questi gli anni delle prime sperimentazioni sul design delle tubazioni per irrigidire e rendere più reattivi i telai delle bici.
Gli stessi tubi furono usati anche da Luciano Paletti nel suo modello Meteor strada e pista, il quale si distingue dal Futura per la marca di forcellini e congiunzioni, Silva per Paletti, Cinelli per Dosi.
Nel biennio ’90 e ’91 Walter è stato meccanico e saldatore della Giacobazzi, nel team c’era anche il giovane Pantani, il quale corse il Giro d’Italia dilettanti del 1991 in sella ad una bici Dosi.
I primi campioni del modello Futura ebbero dei problemi crepandosi vicino alla scatola del movimento centrale, Walter intervenne quindi sul design della piegatura dei tubi migliorandone anche l’estetica. Il Futura è rimasto in produzione fino al 1993.
Frutto della collaborazione con il maestro verniciatore Mario Martini di Lugo, le livree Dosi sono tra le più belle e originali degli anni ’70 e ’80.
La grafica delle livree esce dalla tradizione del tempo con un linguaggio fatto di segni astratti e tinte sfumate, mescolando stilemi derivati dall’estetica urbana e della moda anni ’80. Visitare l’officina Dosi in quegli anni era come entrare in una galleria d’arte contemporanea.
A inizio anni ’90 Dosi ha affidato la costruzione dei suoi telai all’amico Reclus Gozzi (Rauler) di Reggio Emilia. Oggi lavora insieme al figlio, anche lui ex dilettante, nel proprio negozio-officina dove oltre alla vendita di bici e accessori offrono un servizio di consulenza e assistenza di altissimo livello, basato sulla grande esperienza di tecnica del padre e la padronanza del figlio nelle nuove tecnologie.

Dosi Pista


Le livree Dosi by Mario Martini
FANTINI
FANTINI
Ferrara, anni ’70-’80
A Ferrara, Bruno Fantini stava alla bicicletta, come Pavarotti alla lirica, Rivera al Milan, Rita Levi Montalcini alla ricerca medica. Pochissime le tracce sulle quali ricostruire la sua carriera, le sue bellissime bici in acciaio sono comunque le migliori (e sincere) testimoni del suo talento. I pochi telai che sono riuscito a documentare mostrano, oltre ad una notevole maestria e precisione, diverse caratteristiche peculiari e innovative come l’attacco allungato per il cambio, il particolare attacco saldato al telaio per la pinza freno anteriore, l’esasperazione dell’alleggerimento dei foderi posteriori e anteriori, insieme ad altri concetti comuni ad altri telaisti coevi come la svasatura del tubo verticale o la forma ad arco del ponticello posteriore.
In certi casi Fantini è arrivato a creare delle vere e proprie opere d’arte, scolpendo l’acciaio della forcella e del carro posteriore per alleggerire il telaio. La sua officina non aveva insegna ma erano era sempre aperta agli ospiti, grandi e piccini, che volevano osservare Fantini al lavoro e nel 1984 fu realizzato all’interno dell’officina un preziosissimo filmato che riprende Fantini impegnato nell’intero processo di costruzione di una bici da corsa.
Bruno fantini è scomparso nel 2008.
“Un traguardo sicuro” di Raffaello Fontanelli ,1984. Versione digitale da film su pellicola. Bruno Fantini, noto artigiano Ferrarese, nel suo laboratorio costruisce “su misura” il telaio di una bicicletta da cicloturismo. Tratto da “Ferrara tra cinema e memoria” in onda su Telestense.
F.LLI GUERRA
F.lli
GUERRA
Lugo di Romagna, 1950 – ca 1984
Fonti: Artigiani e BiciClette in Romagna nel ‘900, di Ivan Neri, W. Berti Editore
I fratelli Guerra in tutto erano sei, Luigi nel 1916 fu l’unico a nascere a Lugo mentre gli altri fratelli nacquero a S. Potito, nelle campagne lughesi dove la famiglia abitava. La madre morì quando i figli erano ancora molto giovani, il padre lavorava in una cantina d’inverno e vendeva angurie d’estate, alla morte della moglie fu costretto a mandare i figli nel collegio statale Villa S. Martino nei pressi di Lugo, dove ebbero la possibilità di acquisire quella formazione tecnica di base, oltre al diploma statale di specializzazione che era negata alla maggior parte degli artigiani di quel tempo.
Durante gli studi Luigi Guerra, oltre alla saldatura, imparò anche a lavorare a mano il metallo, creando delle vere e proprie sculture in acciaio. Al termine degli studi in collegio ricevette l’offerta di lavorare presso la Cassa di Risparmio, un lavoro sicuro e molto ambito a quei tempi, al quale però egli preferì il lavoro manuale in officina. Fu così che negli anni ’30 comincio a lavorare presso l’officina Cantagalli con i tre fratelli.
La Cantagalli al tempo poteva contare su una ventina di dipendenti, oltre alla rivendita di pezzi di ricambio e biciclette da strada e sportive costruivano anche biciclette marchiate con il nome “Atlas”. I fratelli Guerra, grazie alla specializzazione, erano tra i pochi saper saldare e verniciare telai e vennero tutti incaricati della direzione dei reparti produttivi, Luigi e il suo futuro socio alla saldatura, gli altri due alla verniciatura. Tutti erano profondamente legati dalla passione della bicicletta e affiatati sul lavoro, dopo l’officina andavano a farsi un giro sulle biciclette che si erano costruiti da soli. Uno dei fratelli morì di infarto pochi anni dopo a soli 20 anni.
Nel 1938 Luigi Guerra partì per il servizio militare in Africa per tornare a casa solo nel 1944 dove ricominciò subito a lavorare presso la Cantagalli. Solo due anni dopo con il fratello aprirono la propria officina nel centro di Lugo, prsso la casa di famiglia della moglie di Luigi.
L’attrezzatura necessaria in gran parte se la costruirono da soli mentre per i componenti, che acquistavano da Cantagalli o da venditori di Faenza e Bologna, sceglievano solo il meglio, Campagnolo per il cambio, Cinelli per i manubri e i raggi in acciaio Inox per le ruote. Nei primi anni del dopoguerra, date le condizioni economiche e sociali, in pochi potevano permettersi di acquistare una bicicletta e spesso solo a rate di dieci anni. Famiglie molto numerose condividevano quindi solo una sola bicicletta che di solito era ad uso esclusivo del capofamiglia e a turno per gli altri.
Nei primi anni 50 nell’officina Guerra lavorano 4 giovani apprendisti: Angelo Banini, Mauro Savioli e Dalborgo, dieci anni dopo, con il boom economico e l’espansione del mercato della bicicletta sportiva, l’azienda si specializzò nella costruzione di bici da corsa per amatori e professionisti. Molte le collaborazioni e i telai costruiti per altri marchi della Regione, di particolare importanza la collaborazione con Antonio Alpi e l’officina Ortelli di Faenza.
L’officina F.lli Guerra di Lugo chiuse nel 1984. Luigi Guerra morì all’età di 82 anni, fino alla fine continuò ad usare la bicicletta.
Gruppo Sportivo Gurra, 1948 Lugo di Romagna
FRESCHI
FRESCHI
Milano 1976 – 1989
Fonti: intervista a Emiliano Freschi
Collaboratori in officina: Aldo Invernizzi, Zanella
Frameteller è nato per salvare da un inesorabile e veloce oblio le storie dei piccoli artigiani costruttori di biciclette in acciaio. La ricerca si concentra su quelle officine-bottega in cui il processo di progettazione e costruzione dei telai era interamente eseguito dal proprietario o dai suoi più stretti collaboratori, quasi sempre piccole officina-bottega a conduzione familiare che non hanno mai raggiunto una dimensione industriale per limiti strutturali o per scelta. Nomi poco conosciuti ma con un tasso tecnico spesso paragonabile a quello di marchi più blasonati e con una tensione continua all’innovazione che ha dato un fondamentale contributo allo sviluppo tecnologico al telaio della bici da competizione.
In Italia, dagli anni ‘20 alla fine degli anni ’80, il numero di queste attività fu talmente vasto che oggi è impossibile anche solo calcolarne il numero, è stato necessario quindi all’inizio limitare l’immane lavoro restringendo il campo su un’area definita come l’Emilia-Romagna, un territorio che conobbe una vasta concentrazione di officine di altissimo livello (1).
Grazie all’insostituibile contributo di Emiliano Freschi (2), figlio di Francesco, Frameteller mette quindi per la prima volta una ruota nella Milano del Vigorelli, per decenni capitale mondiale della bicicletta e patria di leggendari Maestri.
Oltre all’originalità dei dettagli tecnici che caratterizzano i telai Freschi, uno dei fattori che mi ha spinto a indagarne la storia è il particolare connubio tra notorietà e mistero che lo avvolge. È infatti una delle ormai pochissime firme milanesi, spesso citata nella rosa dei migliori maestri italiani di quegli anni, di cui ancora si sa poco o nulla. Le informazioni trapelate sulla sua storia fino ad oggi sono spesso frammentate, contraddittorie o senza una fonte attendibile, come ad esempio la collaborazione tra Freschi e Sante Pogliaghi (3).
Ascoltando Emiliano raccontare la loro storia del loro marchio, non mi ha sorpreso ritrovare molti di quei fattori umani e sociali che hanno caratterizzato gran parte delle vite degli artigiani dell’Emilia-Romagna: le enormi difficoltà tra le macerie della seconda guerra mondiale, la gavetta in giovanissima età, la passione e il saper fare trasmessi di figlio in figlio, stima e condivisione con altri maestri della zona, incessante ricerca e sperimentazione per rendere i propri telai unici e interessanti pur di sopravvivere in un mercato estremamente competitivo, evoluzione e crescita fino all’inesorabile chiusura alla fine degli anni ’80, nelle maggior parte dei casi a causa dell’affermazione di nuovi materiali che mandarono l’acciaio, e i suoi maestri, in pensione.

Quarta di copertina di Bikecology del 1980, firmata “Bikecology Bike Shops”.
Emiliano Freschi, figlio di Francesco, appare come direttore tecnico alla Pogliaghi per 16 anni. Foto Frameteller.
Francesco ed Emiliano Freschi, esperienza, creatività e coraggio.
Francesco Freschi, nacque nel 1929 a Milano, primo di quattro fratelli. La passione per il ciclo gliela trasmise il nonno che da giovane era proprietario di una bottega di biciclette. A sua volta Francesco contagiò il figlio Emiliano con il quale aprì l’azienda dal 1976 al 1989, anno di chiusura dell’attività e cessione del marchio.
La gavetta di Francesco cominciò già da bambino nelle officine e nelle botteghe di biciclette milanesi, il padre viveva in Germania e con la guerra di mezzo, come tanti fu costretto a cambiare molti lavori. Negli anni ’60 Francesco conobbe Sante Pogliaghi con il quale si instaurò un rapporto di reciproca stima e amicizia, negli anni per Francesco diventò come un figlio per Sante il quale nel 1972 lo volle con sé in officina.
A quel tempo la firma Pogliaghi era già molto conosciuta e l’officina affollata di operai e apprendisti italiani e stranieri, in molti casi arrivati anche dal Giappone per imparare il mestiere.
Il reparto saldatura era territorio esclusivo di Sante, Francesco all’inizio si occupava un po’ di tutto il resto e in particolare dell’assemblaggio ma la sua esuberante creatività impiegò poco ad emergere e nel giro di pochi anni, seppure in officina da Pogliaghi non si usassero titoli ufficiali, assunse un ruolo che potremmo definire oggi di consulente per lo sviluppo tecnico, un’esempio noto delle sue idee è il particolare nodo sella che caratterizzò i telai Pogliaghi a metà anni ’70.
Stimolato dalla preziosa esperienza con Pogliaghi, nel 1976 Francesco si sentì pronto per aprire l’attività con il figlio Emiliano e produrre bici a proprio nome. Il negozio fu aperto in Via Procaccini e poi spostato un anno dopo in Piazza Gramsci. Francesco progettava e sperimentava spesso nuove soluzioni tecniche e tutti i modelli dell’ampia gamma avevano elementi strutturali inediti, era quindi molto importante per lui poter contare su artigiani con grande esperienza, capacità manuale e apertura mentale. In una piccola officina il lavoro era condiviso ma i compiti piuttosto definiti, la saldatura fu affidata ad Aldo Invernizzi, aiutato nella limatura da Zanella (4), Emiliano squadrava i telai e tutti lavoravano sotto l’occhio vigile di Francesco che si occupava della progettazione e dell’assemblaggio.
“Zanella e Invernizzi erano entrambi della vecchia scuola, gente che ha visto la seconda guerra mondiale. Zanella lo si poteva osservare in officina mentre passava lima e tela, davvero un artista, mentre Invernizzi era uno che con qualsiasi attrezzo gli mettevi in mano ti creava un capolavoro, riusciva a mettere in pratica ogni idea di Francesco lavorando tubi e metalli con tornio e lima”.
— Emiliano Freschi
Come detto l’Italia per molti decenni fu il paese di riferimento nel mercato mondiale della bici e Milano il suo sole che risplendeva dei marchi più prestigiosi ma, nonostante una concorrenza così agguerrita e competitiva, fin dalla sua apertura Freschi riscosse il favore dei clienti e a pochi anni dall’apertura il marchio era già conosciuto e richiesto anche all’estero, non a caso nel gennaio del 1980 la rivista Cycle Sport, prima testata giapponese dedicata al ciclismo nel paese del sol levante, uscì con un ampio servizio dedicato al marchio Freschi.
Le commissioni arrivarono presto a superare le capacità di produzione e Francesco decise di affidare a due terzisti il lavoro di saldatura dei telai destinati all’estero e alle squadre dilettanti, circa il 50% del totale, mentre venne mantenuta interna all’officina la costruzione di tutti i telai su commissione oltre alle fasi di prototipazione, finitura e assemblaggio.
Ovviamente anche i terzisti dovevano rispondere perfettamente alle esigenze di qualità e precisione richieste dagli originali telai di Freschi, la scelta ricadde su Renato Negri e Antonio Mondonico di Concorezzo. Negri soprannominato “il telaista dei telaisti” costruiva bici a suo nome ma era noto soprattutto per il suo lavoro con marchi importanti come Benotto e Cinelli. Costruì telai anche per la Moser di Hans Ulrich Moser, marchio svizzero con sede a Berna dove condivideva l’officina con la ICS Italicicli dell’ingegnere italo-svizzero Artemio Granzotto, conosciuta al tempo anche per le innovazioni tecniche apportate ai componenti al gruppo Campagnolo e alle pipe Cinelli.
Antonio Mondonico, ultimo di una famiglia che costruiva telai già alla fine degli anni ’30, lavorò da Motta negli anni 76 e 77, poi alla corte di Colnago fino al 79, l’anno successivo aprì il suo negozio e dal 1984 al 1989 realizzò i telai di Guerciotti, dal ’90 costruì a suo nome solo telai speciali su misura insieme al figlio, in gran parte destinati al mercato USA. Alcune delle sue bici hanno vinto tappe del giro d’Italia e Tour de France.
Sia Invernizzi che i due terzisti applicarono sui loro telai le idee originali di Freschi (libere da brevetto), evidentemente ne riconoscevano qualità e vantaggi. Putroppo non sono ancora riuscito a reperire informazioni su Invernizzi e Zanella, ma già il solo fatto che Freschi preferisse affidare alle loro mani la costruzione dei telai più importanti, nonostante il livello di Negri e Mondonico, mi sembra di per sé una prova della loro professionalità. Nonostante la competizione spesso tra i costruttori si instaurava una relazione di stima e confronto, Francesco ed Emiliano non collaborarono con altri artigiani milanesi a parte quelli già citati ma ebbero un ottimo rapporto con Masi, Guerciotti, Galmozzi e Marnati.
Fonte di ispirazione di Francesco ed Emiliano erano i clienti stessi, anche per questo furono i primi ad innalzare il livello tecnico e qualitativo anche delle bici da turismo e a sperimentare nuovi modelli e modi di concepire la bicicletta. Nei primi anni ’80, mentre Francesco continuava il lavoro di innovazione sulle le bici da corsa, Emiliano capì che era tempo per proporre ai clienti qualcosa di diverso e fu tra i primissimi in Italia, con molti anni di anticipo sul mercato, a sviluppare modelli come il tandem da turismo con portapacchi posteriore e anteriore, la mountain bike (5), la bici da discesa e la city bike, quest’ultima con il telaio costruito a metà con tubi da corsa e da mountain per avere leggerezza e solidità, con tutte caratteristiche della bici classica ma con una pedalata completamente differente.
Emiliano provò invano a presentare i suoi prototipi a noti marchi e rivenditori ma purtroppo spesso le idee più innovative arrivano troppo presto per essere comprese. La cicli Freschi chiuse pochi anni dopo con la cessione del marchio e oggi i suoi telai sono ricercati dai collezionisti di tutto il mondo per il livello qualitativo e le soluzioni creative che li rendono unici.
Il negozio-officina Freschi a Milano

Freschi con Zanella in officina

Francesco Freschi in officina

Francesco Freschi. Foto Emiliano Freschi


Servizio della rivista giapponese Cycle Sports, sull’officina Freschi. Numero 1 del gennaio del 1980.

A sinistra Emiliano Freschi insieme a un manager americano durante una fiera negli USA. Foto Emiliano Freschi.

Il corridore Marco Pino con la Freschi Dual System,
campionati italiani di Triathlon medio (2/84/20 km) lago di Caldonazzo, 30 luglio 1988.

Il nodo sella “fastback” di Pogliaghi / Foto Dale Brown
Design Freschi

Anni ’70-80, nodo sella realizzato in pezzo unico con le congiunzioni del triangolo, per offrire una valida soluzione tecnica al problema della rigidità del telaio e semplificare l’aerodinamica della parte posteriore. La pantografia su forcellino e nodo reggisella appare a partire dal 1984. Foto BiciCrono.

Anni ’70, sistema ideato e realizzato da Freschi per ridurre l’attrito di scorrimento dei cavi del gruppo cambio. Veniva offerto in due versioni, con boccole o con passacavi cromati. Foto biciak.blogspot.com

Anni ’80, scatola movimento centrale in microfusione ideata da Freschi per permettere il passaggio interno del filo del deragliatore. Foto Zanpibaudi.

Primi anni ’80, Tubo piantone incavato per l’avanzamento della ruota posteriore per consentire l’avanzamento della ruota posteriore. Freschi fu tra i primi ad adottare questo sistema insieme a Tempesta e Vanni Losa. Foto Officine Sfera.

Ponticello per il freno posteriore design originale Freschi. Disegnato per essere più resistente e assicurare una efficace tenuta al freno quando è sottoposto a severe sollecitazioni meccaniche. Foto Zanpibaudi.


Elegante lavorazione dei passacavi nei telai Freschi degli anni ’80.


Pantografie e decals Freschi dal 1976 al 1984. Foto Officine Sfera.



Pantografie e decals Frschi dal 1984 al 1989. Foto Zanpibaudi. La scritta “supreme” era usata anche sui modelli “Sprint” e “Duo System” a causa del costo elevato delle decals.


Alleggerimenti per la rigidità del telaio. Foto Cycle Sports, 1980 Japan.
Altri dettagli della produzione Freschi:
Saldobrasatura a freddo, lavorazione e limatura manuale, Tubazioni Columbus SL, SLX o Reynolds 531 Professional / Forcellini e punte forcella Freschi, forgiati e rettificati di tipo tradizionale o ad innesto rapido (verticali), verniciatura telaio preceduta da fosfatizzazione e fondo epossidico / Gruppi Campagnolo Super Record elaborato, Cinquantenario, Victory, freni Modolo Kronos, manubri e pipe 3ttt e Cinelli.
Modelli Freschi – Catalogo 1983
Crono, strada, mountain bike, tandem e turismo, la completezza della gamma Freschi(6) copriva tutte le esigenze dell’epoca con una visione che anticipava le tendenze del futuro. Altra caratteristica, piuttosto rara per l’epoca era l’attenzione alla qualità e lo sviluppo costante di tutti i modelli, sia da da competizione che da turismo, basta pensare che il modello “base” in catalogo era il Supreme da strada con diverse parti disegnate e realizzate da Freschi come l’originale design del sistema per passaggio il passaggio dei cavi del cambio e il ponticello per il freno posteriore, congiunzioni super leggere, tubi Columbus SLX e gruppo Campagnolo Super Record, in pratica una Specialissima.

Freschi Sprint Super Special Strada: modello Specialissima costruito solo su misura con tubi Columbus SL, disponibile anche nelle versioni “Ovale super special” e “Crono” con tubazioni ovalizzate ed incavatura posteriore. Tubo reggisella incavato per l’avanzamento della ruota posteriore per consentire l’avanzamento della ruota posteriore migliorando così le prestazioni in salita e sullo scatto, mantenendo invariate le gradazioni del telaio tradizionale. Congiunzioni extra leggere lavorate a mano e testa forcella in microfusione, forcellini e punte forcella ad innesto rapido forgiati e rettificati.
Attacco comandi cambio e deragliatole originale Freschi con fili a totale scomparsa e passaggio filo freno posteriore interno al tubo orizzontale. Scatola movimento centrale in microfusione. Gruppo Campagnolo Super Record elaborato con leve freni Modolo Kronos.

Freschi Duo System: la scatola del movimento centrale è costruita interamente a mano con tubo reggisela sdoppiato per dare rigidità al telaio e ridurre al minimo la dispersione di energia. Telaio costruito con tubi Columbus SL, congiunzioni extraleggere lavorate a mano e testa forcella in microfusione, forcellini e punte forcella ad innesto rapido forgiati e rettificati.
Attacco comandi cambio e deragliatole originale Freschi con fili a totale scomparsa. Passaggio filo freno posteriore all’interno del tubo orizzontale. Gruppo Campagnolo Cinquantenario.

Freschi Crono Super Criterium: modello aerodinamico costruito unicamente su misura. Tubo orizzontale inclinato da 25.4 ruota anteriore da 26” o 24”. Tubi Columbus SLX o Reynolds 531 Professional, brasati a bassa temperatura con scatola movimento e testa forcella in microfusione. Design originale Freschi del ponticello freno posteriore. Tubo posteriore incavato per l’avanzamento della ruota posteriore. Fili gruppo freni e cambio a totale scomparsa.
Gruppo Campagnolo Super Record o Victory, leve freni Universal LR2 con cavi interni. Manubrio 3ttt Cow horn con nastro in pelle Almarc. Cerchi lenticolari Ambrosio e tubolari Vittoria CX. Sella San Marco Rolls.

Freschi tandem Corsa e Gran Turismo: telaio costruito interamente con tubazioni in acciaio leggero, testa forcella con foderi rinforzati di diametro 28 mm. Telaio realizzato esclusivamente su misura nei modelli uomo/uomo, uomo/donna, donna/donna, anche con misure differenziate, sia nel modello “Corsa” che nel modello “Gran Turismo. Su richiesta del cliente il telaio può essere fornito con eccentrico e morsetto posteriore in lega leggera.

Freschi Supreme strada: il modello classico Interamente lavorato a mano e rifinito con accuratezza anche nei particolari meno visibili. Telaio costruito unicamente su misura utilizzando tubi Columbus SL, SLX o Reynolds 531 Professional, saldati a bassa temperatura per non alterarne le originali proprietà di resistenza e rigidità.
Attacco reggisella esclusivo Freschi realizzato in pezzo unico con le congiunzioni del triangolo, per offrire una valida soluzione tecnica al problema della rigidità del telaio, migliorando e semplificando l’aerodinamica della parte posteriore. Il ponticello per il freno posteriore originale Freschi, disegnato per essere più resistente e assicurare una efficace tenuta al freno quando è sottoposto a severe sollecitazioni meccaniche.
Scatola movimento centrale in microfusione, ulteriormente elaborata per permettere il passaggio interno del filo del deragliatore, mentre la testa della forcella è del tipo a goccia, con foderi rinforzati sia internamente che lateralmente. Congiunzioni extra leggere di tipo corto, forcellini forgiati e rettificati di tipo tradizionale o ad innesto rapido a scelta del cliente.

Freschi GRIMP uomo e Freschi Country donna: biciclette speciali realizzate per percorsi disagevoli e sterrato. Grazie alla particolare geometria del telaio ed alla componentistica opportunamente studiata, queste “fuoristrada” consentono rapide ed improvvise variazioni di ritmo, ideali quindi sia per ripidi percorsi montani che per nervosi itinerari cittadini. Telaio costruito esclusivamente su misura con tubazioni Reynolds serie rinforzata per Mountain Byke, interamente saldato a mano a bassa temperatura. Attacco a fionda con doppio attacco di sicurezza.
Un particolare ringraziamento a Emiliano Freschi, senza il suo aiuto questo articolo non sarebbe stato possibile.
GALMOZZI
La versione aggiornata è disponibile su Quaderni Eroici / Get the complete version on Quaderni Eroici.
GALMOZZI
Milano 1938 – 1986
Fonti: intervista ad Angelo Galmozzi

Nato nel 1895 a Villanterio (Pavia) Francesco Galmozzi fu uno dei migliori telaisti italiani dell’epoca Eroica. Nonostante nel corso di oltre 50 anni la sua officina raggiunse notevoli dimensioni, arrivando anche ad una squadra di una decina di collaboratori, Galmozzi riuscì nel mantenere standard qualitativi del design di altissimo livello insieme a valori imprescindibili come onestà, umiltà, creatività e rispetto per le persone.
Quella di Francesco e Angelo Galmozzi fu una intransigente e costante propensione alla qualità, senza cercare negli stratagemmi di marketing una leva per competere nella durissima, e non sempre leale, competizione che contraddistinse il periodo Eroico della produzione di biciclette da competizione. Alla fine degli anni ’50 Angelo successe al padre nella guida dell’officina mantenendo quella qualità che rese famoso il marchio Galmozzi. Francesco non smise comunque di visitare l’officina per salutare il figlio e i campioni del ciclismo che corsero con le sue biciclette.
Quella di Francesco e Angelo Galmozzi fu una intransigente e costante propensione alla qualità, senza cercare negli stratagemmi di marketing una leva per competere nella durissima, e non sempre leale, competizione che contraddistinse il periodo Eroico della produzione di biciclette da competizione. Alla fine degli anni ’50 Angelo successe al padre nella guida dell’officina mantenendo quella qualità che rese famoso il marchio Galmozzi. Francesco non smise comunque di visitare l’officina per salutare il figlio e i campioni del ciclismo che corsero con le sue biciclette.

Francesco Galmozzi allo stand Siplex, fiera del Ciclo di Milano.
1910-1950
La famiglia Galmozzi si trasferì a Milano nei primi anni del ’900. A Francesco, che aveva appena 9 anni, fu trovato un impiego presso il dipartimento di oreficeria della fonderia Battaglia, dove ebbe modo di formarsi nel campo della lavorazione dei metalli. Già in quegli anni amava le corse in bicicletta, passione che seguì fino a diventare corridore dilettante (tra i compagni di squadra c’era tal Guidi, futuro nonno di Johnny Dorelli), il fisico esile gli permetteva di essere particolarmente scattante e veloce in salita. Con le corse crebbe anche il suo interesse per la parte meccanica della bicicletta e con alcuni amici si cimentò nel modificare una vecchia bici da passeggio del secolo precedente in una contemporanea bici sportiva.
Arrivò la Prima guerra mondiale e, nonostante non fosse un amante della divisa, Francesco fu arruolato come Bersagliere e mandato al fronte. Fu Recluso a Mauthausen e perse un polmone a causa di gravi ferite, solo per miracolo riuscì a sopravvivere al conflitto e tornare ritornare a casa nel 1921 dove trovò lavoro da Artemisia Gerbi, sorella del corridore Giovanni detto “il diavolo rosso”, che a quel tempo produceva e vendeva biciclette. L’anno successivo fu proprio Francesco a suggerire “Gloria” come nome per la nuova azienda della Gerbi e del socio Alfredo Focesi, la cui produzione, orientata prevalentemente alle biciclette da corsa, raggiunse già dal 1923 un forte successo grazie anche alla vittoria del campionato del mondo della propria squadra con Liberio Ferrario, primo campione dell’italia ciclistica, con una delle innovative bicicletta Gloria “Garibaldina” progettate dal giovane Francesco Galmozzi.
Il design del carro posteriore prima e dopo la soluzione ideata da Francesco Galmozzi per la Gloria.
La sede della Gloria in quegli anni era situata in un capannone di legno di 90mq in via Scarlatti a Milano, Francesco come direttore tecnico riuscì in poco tempo a dare alle biciclette Gloria caratteristiche costruttive ed estetiche rivoluzionarie per l’epoca come il carro posteriore costruito con i due foderi separati e integri senza il classico collegamento a “Y” usato fino ad allora, le splendide decorazioni sui telai e la finitura galvotecnica (nichelatura con vernice trasparente), elevando la produzione telaistica dell’epoca ad opera d’arte. Nel 1926 Francesco, essendo chiamato a testimoniare contro Alfredo Focesi e a favore della Gerbi, entrambi titolari dell’azienda, nel merito di dissidi per questioni economiche, fu costretto a dimettersi per onestà intellettuale da direttore dell’azienda.
Poco dopo le dimissioni Francesco, grazie alla padronanza della lingua tedesca imparata durante la prigionia a Mauthausen, si impegnò nell’indirizzare il calzaturificio cecoslovacco Bata alla Pirelli, quest’ultima lo premiò con un orologio d’oro che fu recapitato alla sua attenzione alla A.M.F Gloria – racconta Angelo – «quell’orologio venne trattenuto per rappresaglia dal disonesto Focesi e non fu mai consegnato al suo ex direttore».
A due anni dall’uscita dalla Gloria Francesco entrò come socio alla Fratelli Magri, azienda che in seguito acquisì e di cui rimase proprietario fino al 1938, anno in cui fondò la sua Galmozzi e nacque il figlio Angelo. Francesco scelse come nuovo distributore della Galmozzi-Magri, la ditta Lazzaretti Romolo e Remo di Roma. A quel tempo l’azienda vendeva circa 3.000 telai all’anno e la squadra era composta da circa dieci operai. Nei primi anni ’30 le biciclette da competizione Galmozzi-Magri erano già ampiamente usate da corridori professionisti in italia e all’estero.
Nel 1932 Attilio Pavesi vinse due Ori, cronometro e a squadre, alle Olimpiadi a Los Angeles su bicletta Galmozzi-Magri, così come molti corridori al campionato del mondo di Montlhery l’anno successivo.
Per poter vendere le proprie biciclette in Inghilterra senza incorrere nelle sanzioni fasciste dell’epoca, i soci decisero di aprire una sede a Chiasso in Svizzera. Alla morte di uno dei due fratelli Magri la società venne divisa e Galmozzi si intestò la parte italiana.
“Quanto siano bravi gli italiani a costruire biciclette lo si può vedere allo stand Tabucchi, dove sono ben esposti i telai creati dalla Magri-Galmozzi.”
— Rivista inglese “Cycling”, 17 novembre del 1933
PRIMI RICONOSCIMENTI
Nel novembre del 1933 la rivista inglese “Cycling” elogiò la qualità delle biciclette Magri-Galmozzi esposte nello stand Tabucchi Tyre Co. alla fiera “The Lightweight Show “ di Londra.
“Anche se in fiera si possono vedere alcune delle migliori lavorazioni britanniche, c’è sempre una folla intorno allo stand n. 5, dove una macchina speciale, costruita dai sigg. Fratelli Magri e Galmozzi, i migliori produttori di pesi leggeri d’Italia, viene esposta dalla Tabucchi Tire Co. Ltd., per mostrare i loro cerchi Fiamme. Questa macchina è conosciuta come il modello Campione del Mondo, ed è quello utilizzata dal corridore su strada vincitore l’anno scorso a Los Angeles e ampiamente utilizzata anche quest’anno a Montlhery da molti corridori italiani e da alcuni francesi.”

Catalogo Tabucchi Tyre Co. Ltd, anni ’30. Vengono citate la fiera del 1934 e la fornitura dei telai, da parte della Galmozzi-Magri per la nazionale Olimpica italiana e altre squadre internazionali.

Squadra Ursus Welter insieme a Francesco Galmozzi, terzo da destra.
"In casa di Galmozzi se ne parlava molto bene e mia madre aveva una bici da donna fatta da loro di cui andava molto orgogliosa. Ricordo anche il giovane Galmozzi che veniva a ritirare anche solo pochi tubi alla volta in bicicletta, aveva libero accesso senza dover passare da Cino Cinelli."
— Antonio Colombo

IL LEGAME CON COLUMBUS
Antonio Colombo ricorda che fu molto duratura la relazione tra i Galmozzi e la storica azienda milanese. Alla fine degli anni ’30 Francesco suggerì al titolare della azienda Columbus, Angelo Luigi Colombo, l’idea di recuperare le centinaia di cisterne abbandonate dopo la guerra per riutilizzarle nella produzione delle tubazioni per telai da bicicletta, idea che poi fu tradotta in realtà. Dal 1949, per ovviare alle tante falsificazioni, i tubi dei telai Galmozzi venivano personalizzati direttamente dalla Columbus con il simbolo del gallo e la dicitura “Super Competizione”.
«Caro Galmozzi, sapete che non ho ancora osato inforcare la bicicletta che avete costruito? Mi fa soggezione. Vorrei che il mio corpaccio non la sfiorasse per non appannarla, per lasciarla vergine e intatta come è uscita dalle vostre mani. Sono mani di mago in verità e io vorrei, vi assicuro, che dalla mia penna uscissero le parole come dalle vostre dita escono le biciclette: così leggiadre, così agili, così “uniche”. Il mio “grazie vale il mio “bravo”. Non siete solo un artigiano siete un artista perché nei meccanismi che ideate e costruite sapete infondere un tocco di genialità, e quasi soffiare un alito di poesia. Una bicicletta così bisogna ancorarla: lasciata libera e sciolta c’è rischio di vederle spiccare il volo».
— 1942, Bruno Roghi, direttore della Gazzetta dello Sport
1950-1986
Come detto Francesco non amava le uniformi e certo non era uomo asservito al fascismo. Durante il discorso di entrata in guerra di Mussolini fu colto anche a ridere e denigrare il dittatore in pubblico, comportamento imbelle che gli procurò minacce e persecuzioni da parte dei fascisti. Alla fine della guerra l’officina era inutilizzabile a causa dei bombardamenti, Francesco invecchiato, affaticato dalle cicatrici fisiche della prima guerra e con il patrimonio ormai disperso, riuscì a trovare le forze per ricominciare da zero rilevando un fondo per costruire la nuova officina.
Per la costruzione del telaio i Galmozzi preferivano non impiegare dime o maschere, dopo aver osservato e misurato il ciclista venivano infatti impostati angoli e misure con una semplice squadra, impostando l’inclinazione del piantone e la posizione della ruota posteriore in funzione dell’uso per pista, strada o criterium. Alle forcelle, costruite sempre con l’uso del solo goniometro e a curvatura invariata, non venivano aggiunti i rinforzi all’interno dei foderi, giudicati dai Galmozzi inutili e dannosi per la tenuta del delicato punto di contatto del fodero con la testa della forcella.
Dopo anni di sacrifici la nuova produzione, sempre artigianale e prodotta in sede, raggiunse di nuovo numeri elevati grazie anche alle commissioni come terzisti per produttori italiani e inglesi, i quali applicavano la propria livrea ai telai Galmozzi, tra gli italiani ricordiamo, oltre al già citato Lazzaretti, Chiappini, Gamba, Mosé, Guerciotti, Barale, Bevilacqua e Poli. I clienti diretti erano corridori amatori e professionisti e ogni telaio era sempre progettato sulle caratteristiche fisiche del ciclista in coerenza con le esigenze di impiego agonistico.

1962ca. Rik Van Looy campione del Mondo (1961) in sella a bicicletta Galmozzi.
«La Specialissima di Van Looy pesava meno di 10 Kg e la ruota posteriore di 28 raggi resse per l’intero percorso, sfasciandosi solo subito dopo aver tagliato il traguardo, sotto il forte impeto della lunga volata. Ma la bici da me consegnata aveva entrambe le ruote da 36 raggi con nipples in Elektron (lega avio in alluminio), l'idea di sostituirle con cerchi a 28 raggi fu del suo direttore, Driessens»
— Angelo Galmozzi
Molti i telai speciali Galmozzi costruiti per le competizioni su strada e pista, uno dei più importanti fu la Specialissima, peso meno di 10kg, usata da Rik Van Looy nel 1961 per la vittoria al campionato del mondo. Importante fu anche la collaborazione con il Gino Bartali che nel 1957 incaricò Galmozzi di costruire i telai per la sua squadra San Pellegrino. Il legame fra Bartali e Galmozzi risale agli anni prima della guerra, quando Gino correva per la Legnano e commissionava telai da pista a Francesco, non ancora telaista di fama internazionale. Sono noti anche telai costruiti da Galmozzi per Bartali nel dopoguerra, a prova che il rapporto tra i due durò almeno fino agli anni ’60.
Nel 1959 Angelo Galmozzi, che nel frattempo si era diplomato in un istituto tecnico e aveva studiato il lavoro del padre in officina, entrò in azienda con la prospettiva di dare cambio nella direzione dell’officina al padre che si ritirò pochi anni dopo. Sempre negli anni ’60 nell’officina Galmozzi furono prodotte bici per note squadre professionistiche come Atala-Lygie, San Pellegrino e Libéria-Grammont. Per oltre 12 anni la Galmozzi costruì anche tutti i telai reparto corse della Atala, con la richiesta particolare di aggiungere i rinforzi interni ai foderi della forcella, così da non sminuire, rendendole più simili, le loro biciclette rivolte al mercato. La produzione nazionale venne poi interrotta per ottenere una maggiore penetrazione presso i mercati esteri come Stati Uniti, Canada e Giappone. Francesco Galmozzi ci ha lasciato nel 1975, il figlio Angelo ha continuato a guidare la l’officina fino alla sua chiusura nel 1986 a causa dei costi di affitto degli spazi, divenuti in quegli anni troppo onerosi.


La squadra San Pellegrino al completo assieme al direttore sportivo Gino Bartali.
IL DESIGN DEI TELAI GALMOZZI
Già a partire dagli anni ’40 i telai Galmozzi erano molto apprezzati e imitati. «Venivano da noi con telai che si erano rotti a lamentarsi, e io facevo notare i fori di sfiato che non erano come li facevamo noi, erano imitazioni fatte dalla Torpado». Quindi, per ovviare al problema dei plagi nel 1949 Francesco, su consiglio dell’Ing. Cantafora, all’epoca direttore della Colombus, decise di fare personalizzare i tubi dei propri telai con la scritta “Galmozzi Super Competizione” sul tubo sterzo.
RIGA E PALLINO
Ulteriori elementi caratteristici fino alla fine degli anni ’60 sono le congiunzioni tubo sterzo, testa forcella e raramente della scatola del movimento centrale, personalizzate con svuoti a forma di riga e cerchio, oltre all’assenza di rinforzi nei foderi della forcella (unica eccezione i telai costruiti per le squadre San Pellegrino e Atala). Alcuni telai prodotti per altri marchi, come ad esempio Romolo Lazzaretti di Roma o Villa di Bologna, avevano la testa forcella con la riga intera e senza pallino. A partire dalla fine degli anni ’60 la testa forcella non è più personalizzata.
LA FIRMA NASCOSTA (FIORI DI SFIATO)
Un altro espediente importante di Galmozzi, studiato e applicato su tutti i telai per poterli distinguere a colpo d’occhio dai falsi era l’allargamento a 2.75 mm del diametro dei quattro classici piccoli fori creati durante la saldatura del telaio e della forcella (necessari per sfiatare il vapore che poteva formarsi all’interno dei tubi), un sottile dettaglio spesso ignorato nei plagi.
MALAGUTI
MALAGUTI
Bologna 1930 – 2012
Cicli Malaguti / Biciclette su misura – poi azienda di motocicli / San Lazzaro di Savena (BO), Italia / 1930 – 2012
Ha collaborato con: Cinelli, Frejus, Legnano, altri marchi italiani e stranieri
Agonismo: squadra professionistica, campionato italiano dilettanti su pista e strada negli anni ’40-’50 / Petrucci, vincitore della Milano-Sanremo nel 1952 e ’53.
Fonti: Archivio storico Malaguti / Malaguti, una vita tra le moto e i rossoblù di Valerio Varesi Repubblica 27-4-2003 / Paramanubrio / Classic Randezvous / Velo-retro.com
Antonino Malaguti ha passato tutta la vita in equilibrio su due ruote, fin quando da bambino si impegnava sulle salite di San Giovanni in Persiceto dove nacque nel 1908. Correre in bicicletta è sempre stata la passione della sua vita, indole agonistica che a causa un incidente incanalò poi con grande successo nella sua officina per la costruzione di biciclette, nella quale ogni anno lo andavano a trovare personaggi come Bartali e Coppi.

L’officina meccanica Malaguti apre nell’inverno del 1930 a San Lazzaro di Savena in via Bondi, in un piccolo capannone, con dieci dipendenti e senza riscaldamento.
Subito dopo la pausa della guerra Malaguti riprende l’attività dell’officina dando vita anche ad una squadra professionistica che equipaggia e sponsorizza, il team annovera campioni come Loretto Petrucci, vincitore della Milano-Sanremo nel 1952 e ’53.

Dei telai Malaguti si sa poco o nulla, a giudicare però dalla qualità delle innovazioni tecnologiche uscite dall’azienda dovevano essere di ottimo livello. Nel 1949 Antonino Malaguti rivela intuito e profonda capacità tecnica, qualità che lo hanno accompagnato lungo tutta la carriera di meccanico e imprenditore, brevettando le prime congiuzioni senza saldatura per i telai delle biciclette, ottenute direttamente dai tubi tramite estrazione.

Le congiunzioni Malaguti ebbero subito grande diffusione, scelte anche da molti costruttori tra i quali grandi marchi come Frejus, Legnano o Cinelli che le utilizzò su tutti i telai fino ai primi anni ’60.
“1947-51The Modello Speciale Corsa Lusso (Special Racing Luxury) frame has a semi-sloping fork crown (not full-sloping) with or without spear point on outside of the fork leg and a Malaguti “Frejus-style” seat lug with separate seat tube collar; frame production is approximately 250-300 frames per year. The frame features chrome Malaguti “wolf’s ears” head lugs, chrome fork, four chrome rings on the seat tube, lozenge-shaped “CINELLI” decal on the down tube, an open cable run beneath top tube for rear brake cable (sometimes internal rear-brake cable routing) and eyelets for fenders.” (dalla timeline Cinelli / via velo-retro).


Dalla bici agli scooter.
Negli anni del dopoguerra l’Italia si motorizza, in Emilia più che altrove la piccola industria meccanica avvia nuove soluzioni e sperimentazioni e Malaguti aggiunge alle sue biciclette l’appendice del motore ausiliario, creando così quell’ibrido tra moto e bicicletta che passerà alla storia con il nome di ‘mosquito‘.
Dalla fine degli anni ’50 la Malaguti ha continuato nella progettazione di mococicli economici a basssa cilindrata diventando negli anni 80 leader del settore. L’azienda ha chiuso nel 2012 mantenendo esclusivamente la produzione di biciclette a propulsione elettrica.

MARASTONI
MARASTONI
Reggio Emilia 1922 – 2015
La versione aggiornata è disponibile su Quaderni Eroici / Get the complete version on Quaderni Eroici.
Fonti: interviste a Licinio Marastoni, Classic Randezvous, Paramanubrio, Ferri vecchi, Bici classiche, Stefano Camellini, Alessandro Marconi
Ha collaborato con: Campagnolo / Cinelli / De Rosa / Moser / Rauler / Paletti / Gimondi, Coppi

Nato il 15 giugno 1922, per qualità, innovazione e creatività, fu uno dei migliori e longevi costruttori italiani di biciclette da corsa dell’epoca Eroica. Oggi tra gli appassionati di tutto il mondo il suo nome è una leggenda e dagli Stati Uniti al Giappone sono dedicati diversi fan club alla sua memoria. Buon corridore, meticoloso tealista a tal punto che la sua officina veniva chiamata dai concittadini “La Farmacia”, fu meccanico per 8 anni al giro d’Italia e lavorò per campioni come Coppi, Bartali, Magni, Baldini, Adorni, Bitossi e Moser. Le sue invenzioni hanno dato un significativo contributo all’evoluzione del design della bicicletta da competizione. La sua inesauribile creatività nasceva dal semplice ed inesauribile amore la bicicletta e, nonostante il successo e la fama del suo lavoro nell’arco di ottant’anni di carriera, fu l’unico tra i grandi maestri della sua epoca a scegliere di mantenere una dimensione artigianale. Curava ogni dettaglio con estrema precisione e la creazione di un telaio richiedeva fino a tre giorni di lavoro manuale, di fatto un approccio incompatibile con tempi e logiche commerciali della produzione industriale. Tullio Campagnolo stesso, che di innovazione ne sapeva qualcosa, ebbe una grande stima per Marastoni e usava spesso recarsi nella sua officna per scoprire le nuove idee del maestro, così come erano di casa anche altri grandi protagonisti come DeRosa, Masi, Cinelli e i fratelli Shimano. Continuò a lavorare in officina fino al 1991, all’età di 87 anni, di cui 80 di carriera. Come altri costruttori di questa generazione, ha lasciato un ricordo indelebile per genio creativo e grande umiltà, due qualità oggi molto difficili da ritrovare.
1920-1960
Licinio ereditò la passione dal padre ciclista e già da piccolissimo la bicicletta lo appassionava a tal punto da preferire smontare le biciclette dei grandi piuttosto che giocare con i coetanei. A 7 anni si esercitava nell’officina di un meccanico del paese e a 11 lasciò la scuola per lavorare come apprendista presso l’officina di Grasselli, il quale, vista la grande passione del ragazzo, non chiese nulla in cambio nonostante al tempo fosse comune pagare il periodo di apprendistato. Ad appena 17 anni scelse definitavamente la carriera di artigiano preferendola a quella più sicura di prete pianificata dai genitori, i quali impegnando la preziosa macchina da cucire, offrirono le 6.000 Lire necessarie per acquistare l’attrezzatura. Fu così che ancora minorenne anni Licinio aprì la sua officina con l’amico, appena dodicenne, Marco Mazzoni. I clienti vedendo Licinio cosi giovane gli chiedevano dove fosse il titolare e lui rispondeva che il titolare era fuori e sarebbe tornato presto, intanto si faceva lasciare la bici da riparare. A quella età Licinio non poteva firmare le bici a suo nome, fu così che nacque il marchio “Sprinter” con il disegno del Sole dell’Avvenire, simbolo che verrà poi ripreso due anni dopo nel primo fregio firmato Marastoni. Un anno dopo andò in guerra, fuggì dalla prigionia e tornò a piedi dall’Austria a Reggio Emilia, dove riprese a lavore. Nel 1946, tra rovine le rovine della seconda guerra mondiale, le ristrettezze economiche costrinsero Marastoni a cercare un nuovo socio con cui riaprire l’officina e lo trovò solo due anni dopo in Ferdinando Grasselli, proprio colui che per primo gli aveva dato fiducia. Nacque così La Cicli Grasselli – Marastoni che rimarrà attiva fino al ritiro di Grasselli nel 1960. Le bici di questo periodo sono riconoscibili per il famoso color verde Marastoni e tre strisce blu scuro delimitate da filetti bianchi sui tre tubi, la scritta “Marastoni” è in carattere corsivo di colore bianco. Nel 1967 Ercole Baldini gli commissionò le biciclette per la squadra Salamini Luxor, di cui era il direttore sportivo, tra i corridori il campione del mondo Adorni.
«Perchè venite da me quando a Bologna avete il maestro Marastoni?»
— Faliero Masi

IL VERDE MARASTONI
Una delle caratteristiche che rendono riconoscibili i telai di Marastoni è il particolare colore verde. In realtà fu un’intuizione nata in modo completamente casuale, Negli anni ’40, all’inizio della sua carriera di costruttore, Licitino era alla ricerca di un colore che gli permettesse di distinguere a colpo d’occhio le sue biciclette dai diretti concorrenti di Reggio Emilia e delle città vicine. L’intuizione arrivò durante una passeggiata lungo il fiume dove trovò un ramarro che lo colpì per la particolare tonalità di colore verde brillante, lo mise in una scatola e lo portò direttamnte al verniciatore chiedendogli preparagli esattamente lo stesso punto di verde.

1961-1991
Alla fine degli anni ‘60 dall’officina uscivano bici su misura per grandi campioni come Gimondi e Fausto Coppi, Licinio condivideva passione e lavoro con il suo unico figlio Marco di dieci anni. Nel ‘69 l’idea che cambiò tutto: in officina si presentò l’amico Renzo Landi, rivenditore di impianti a gas, Licinio notò su una bombola dell’ossigeno una particolare valvola realizzata in microfusione e, primo nella storia, ebbe l’idea di usare questa tecnologia per produrre congiunzioni e teste delle forcella per i suoi telai. I primi esperimenti ebbero esito più che soddisfacente ma, essendo una tecnologia industriale, per fare ulteriori test era necessario ordinarne un quantitativo di pezzi troppo elevato.
Nel 1971, su insistenza di Cino Cinelli, Marastoni decise quindi di rischiare tutti i risparmi investendo nella commissione, all’azienda “Microfusione Italiana”, di una intera serie da testare.
Oltre a Cinelli, l’esperimento attirò da subito l’attenzione anche quella di altri maestri come Masi, DeRosa e Colnago i quali a più riprese visitarono l’officina per osservare la nuova invenzione. In realtà Marastoni e Cinelli condividevano reciproca stima e scambio di idee (come la forma abbassata della testa della forcella o l’attacco “fastback” dei forcellini posteriori realizzato dalla Georg Fischer) già dalla prima metà degli anni ‘60. Fu sempre Cinelli, nel 1971, a convinvere Licinio ad accompagnarlo alla Fiera del Ciclo di milano per mostrare i prototipi in microfusione ad alcuni clienti selezionati, nell’ottica di brevettarle e produrle insieme in scala industriale. Nacque così un accordo tra Cino e Licinio con un utile per il secondo del 10% sui ricavi. La fama delle innovazioni di Marastoni si diffuse velocemente nell’ambiente e inevitabilmente i clienti aumentarono sia in italia che da paesei come Giappone, Germania e Svizzera, per avere un telaio Marastoni (solo 1,8 kg!) nonostante fosse necessaria un attesa anche dieci mesi. A quel tempo in officina oltre a Licinio e figlio, lavoravano a tempo pieno anche due artigiani per aiutare nelle accurate lavorazioni di taglio, saldatura e limatura dei telai, lavoro che richiedeva fino a 3 giorni, un tempo decisamente più lungo rispetto alla media dell’epoca.
«Non ho mai registrato brevetti, a me interessava solo costruire biciclette»
— Licinio Marastoni
Nel 1972 il figlio Marco, promettente ciclista dilettante, partì in auto verso Milano per scegliere con Cino Cinelli il capannone che avrebbe ospitato la produzione industriale delle nuove congiunzioni in microfusione. Durante il viaggio la tragedia, Marco fu coinvolto in un incidente stradale e perse la vita. Il lutto per Licinio fu evastante, lasciò il lavoro e chiuse l’officina.
Amici, colleghi e ammiratori si strinsero da subito intorno alla famiglia, sostenendola ogni giorno con una infinita dimostrazione di affetto, fino a che, a ormai un anno dall’incidente, Licinio riusci a trovare la forza di ricominciare. Da quel momento in poi Marastoni creò le sue bici specialissime, destinate esclusivamente a clienti di cui aveva totale rispetto, firmandole con decals con il nome del figlio scomparso, per il quale nel 1973 organizzò anche una speciale corsa, la “Memorial Marastoni”, la cui ultima edizione si tenne nel 1996. Tra i sostenitori più vicini a Marastoni vi fu anche Francesco Moser con il quale poi Licinio instaurò un rapporto di grande stima e collaborazione destinato a durare per molti anni. A dieci anni di distanza dal ritorno di Licinoi in officina, Moser gli chiese di costruire le sue biciclette da corsa. Licinio accettò l’incarico ma si dovette ritirare appena emersero con forza le logiche commerciali della grande industria, non compatibili con il livello di qualità, cura e tempi necessari al suo metodo di lavoro. Il progetto quindi si fermò ma non l’amicizia e la collaborazione tra i due, nel 1984 Marastoni costruì a Moser la bici con la quale vinse il Giro d’Italia, il telaio era studiato sulle caratteristiche fisiche del campione e disegnato per permettergli una pedalata più arretrata in grado di esprimere tutta la sua potenza.
Licinio Marastoni ci ha lasciati nel dicembre 2015.

L'OFFERTA SHIMANO
«Nel 1966-67, vennero da me i dirigenti giapponesi della Shimano, e mi dissero che se montavo i loro prodotti me li davano con lo sconto al 50%. Chiamai Campagnolo dal quale acquistavo con il 16%, quasi come tutti, salvo Chierici che aveva il 20%. Campagnolo mi sconsigliò accettare l’offerta Shimano e tirando fuori le fatture di grossi marchi come Bianchi a cui vendevano con il 28%, lo offrirono anche a me e accettai. Poi ero io a rivendere al 18% agli altri che venivano da me invece che rivolgersi direttamente in azienda. Fu una soddisfazione».
Intervista a Licinio Marastoni, novembre 2010
IL DESIGN DEI TELAI MARASTONI
Nell’arco della sua carriera Marastoni ha realizzato importanti innovazioni portando un fondamentale contributo all’evoluzione del design del telaio delle bici da corsa in acciaio. Queste idee non sono mai state tradotte da Marastoni in veri e propri brevetti, in quegli anni e in particolare nell’area tra Modena e Reggio Emilia, vi erano altri costruttori impegnati sulle medesime soluzioni, tra i quali vanno ricordati Luciano Paletti e Orazio Grenzi, entrambi di Modena. È impossibile oggi poter accertare se Marastoni sia stato il primo in assoluto a realizzare le invenzioni che lui stesso si è attribuito, ci limitiamo qui ad elencare quelle confermate da più autorevoli fonti.
FREGI MARASTONI
Il simbolo del Sole dell’Avvenire, molto caro a Marastoni, è presente come decal sul tubo sterzo già sulle prime “Sprinter” della fine degli anni ’30. Pochi anni dopo Marastoni inaugura decals a suo nome con un fregio in ottone senza il disegno del sole, probabilmente si trattava di un prodotto di serie già impostato e personalizzabile offerto dal fornitore. Il simbolo del sole ritorna comunque già nel fregio immediatamente successivo, insieme alla scritta Marastoni. Dalla fine degli anni ’40 viene data al fregio una forma più appuntita e originale, mentre dagli anni ‘60 presenta la “M” insieme allo stemma della città di Reggio Emilia.
NUMERAZIONE DEI TELAI
Marastoni annotava misure, colore, nome e misure del proprietario e numero di telaio di ogni sua bicicletta da lui costruita. Il numero seriale era inciso sotto alla scatola del movimento centrale, non in tutti i telai, ne sono privi infatti i telai di media gamma costruiti da terzisti. Purtroppo i suoi registri di Marastoni con tutte le informazioni sono andati dispersi dopo la sua scomparsa.
MARTINI
MARTINI
Lugo di Romagna 1927 – 2010
F.lli Martini / Verniciatura telai / Lugo (RA), Italy / 1972 – In attività
Fonti: intervista a Mario Martini / Articolo dal quotidiano “Sabato sera” di Lou Del Bello.
Ha collaborato con: Somec / Vicini / Colner / Ronchini / Adriatica / Egan / Dosi / Patelli / Sintesi, Brunetti / Cicli Faenza / EGAM (…).
Le biciclette da corsa italiane sono famose nel mondo per il design artigianale, la qualità delle tubazioni e dei componenti. Un altra capacità ci è sempre stata riconosciuta e invidiata è l’eleganza e l’originalità delle livree. Innovazione meccanica/telaistica e design in Italia sono infatti da sempre vestite con eleganti scelte grafiche. Tra i maestri che hanno dato vita alle verniciature più belle e originali nella storia della bicicletta il più originale e creativo è stato sicuramente Mario Martini di Lugo, il primo al mondo a donare ai telai la vernice sfumata rivoluzionando il modo di “vestire” le biciclette.
“L’idea nacque grazie ad un ragazzo di Ravenna che mi chiese di verniciare tutte le bici della squadra di cicloturisti con gli stessi colori della loro maglia. Era una cosa mai fatta prima, ma decisi di provare. Lavorai per tre intere notti, facendo e disfacendo finché non trovai che il lavoro era veramente perfetto. Al mattino del quarto giorno il telaio era una vera bellezza e il successo fu incredibile. Alla seguente fiera di Milano presentai tre modelli sfumati e tre disegnati, dopo dieci giorni i telefoni erano bollenti, non facevamo in tempo a raccogliere le ordinazioni. Purtroppo non avevamo strutturati per accontentare così tanti clienti, e da quel punto di vista perdemmo un treno perché poi molti si rivolsero altrove. Era il 1990 e da allora tutti i telai sfoggiarono ogni tipo di sfumatura.”

Lo stilista delle bici.
La carriera di Mario Martini, classe 1945 inizia alla fine degli anni ’60, diciottenne viene assunto come cromatore insieme al fratello Sergio alla Vertel di Lugo a cui viene affidata invece la verniciatura. Alcuni anni dopo la Vertel chiude e i due fratelli insieme ad altri colleghi uniscono le forze per dare vita ad una nuova azienda di verniciatura.
Nel 1972 fondano la F.lli Martini verniciatura e sabbiatura nella quale entra anche il terzo fratello Giovanni. I primi anni sono i più duri, oltre alla verniciatura di telai per l’Adriatica di Pesaro e le Graziella della EGAM di Forlì, eseguono anche lavori pesanti come la verniciatura di silos industriali.
Nella seconda metà degli anni ’70 le prime commissioni sulle bici da corsa da parte di Umberto Patelli di Bologna ed è subito successo, da quel momento in poi sfileranno da Martini gran parte dei costruttori della regione, alcuni anche da Padova, tra i tanti Paletti, Dosi, Adriatica, Vicini, Sintesi, Cicli Faenza, Ronchini, Colner e soprattutto la Somec. In un anno dalla F.lli Martini escono verniciati fino a 3.500 telai per biciclette da corsa.
Dei tre fratelli l’artista del colore è Mario, sempre alla continua ricerca di nuove soluzioni, per lui la sperimentazione (anche su damigiane di vetro) è abitudine quotidiana. Perfeziona nel tempo stili grafici inediti ed eleganti, mixando spruzzi astratti, sfumature di colore e forme geometriche che si intersecano in trasparenza, i suoi “pezzi” fanno storia e vengono imitati ancora oggi da piccole e grandi aziende, in Italia e all’estero.
“Prima si stende un fondo anticorrosione, poi carteggiato miniziusamente il telaio si passa alla verniciatura vera e propria, con lo smalto e infine si crea il disegno. Questa parte finale, quelal che crea la personalità del telaio, si fa con una piccola pistola a spruzzo: ci vuole la mano allenata, ma è in questa fase che scatta la scintilla della creatività! Quando si inizia, non c’è un’idea ben definita, l’insieme si precisa quasi da solo, ogni spruzzo di colore o effetto grafico ne suggerisce un altro, e alla fine il risultato e qualcosa di originale, sempre armonico. Bisogna però essere minuziosi se si sbaglia anche solo un dettaglio si deve ricominciare da capo, non è come una tela che si può cambiare se il risultato non piace“.
“Talvolta collaboro con artisti dell’aerografo, sono in grado di creare sul telaio dipinto da noi delle figure di grande effetto, come animali o fulmini, questi pezzi unici potevano costare fino a 1.500 euro.”
In quarant’anni di carriera Mario Martini ha elaborato un proprio linguaggio di texture e motivi grafici che ha generato un mondo di segni unico e inconfondibile. A 70 anni arrivato alla pensione si è ritirato dall’azienda, nonostante le sue opere siano ancora molto richieste in Italia e all’estero.
“Rispetto alle origini, però, anche qui il mercato è cambiato molto, e così l’indirizzo professionale, anni fa, la bicicletta era un oggetto prezioso, e quindi doveva essere ben rifinita, c’era l’attenzione per i dettagli, poi è finito tutto, non c’è più lo stimolo, adesso si spende poco, il commercio dall’oriente ha distrutto questo mercato e le grandi aziende verniciano automaticamente il loro prodotto per ridurre i costi.”
Intervista a Mario Martini / By Ciclismo Furioso







MESSORI
MESSORI
Modena 1926 – 2015
Fonti: Luca Campanale, Paolo Chiossi, Stefano Orlandi nipote di Messori

Lino Messori, lontano parente di quel Carlo Messori vincitore di titoli mondiali negli anni ’30 e marito di Alfonsina Strada ciclista e pioniera della parificazione fra i sessi, è nato a Modena il 24 febbraio del 1926, personaggio eclettico, artigiano estremamente abile, curioso e creativo, come gli “artisti-artigiani” del Rinascimento riuscì nella difficile arte della fusione di bellezza e funzionalità. Fin da giovanissimo era appassionato di bici e ciclismo e si impegnò come corridore dilettante fino all’avvento della guerra. Per almeno un ventennio, a partire dagli anni ’50 e fino ai ’70, il suo lavoro principale fu la gestione di una importante azienda di stampaggi aperta con altri soci nei primi anni ’50. Nonostante non fosse il suo lavoro primario riuscì comunque ad intraprendere, con risultati di alto livello, anche la professione di artigiano costruttore di telai da corsa, a quei tempi (e anche oggi) un lavoro decisamente impegnativo sia dal punto di vista fisico che tecnico.

Lino Messori con Ernesto Colnago
Le prime nozioni di costruttore Lino le apprese dal padre che costruiva biciclette da passeggio nel proprio negozio a Modena in via Livizzani, competenze che ampliò ai telai da corsa presso la sede milanese della Cinelli, dove spesso si recava per acquistare il materiale necessario all’officina. Nei primi anni ’50 il suo lavoro era già noto e apprezzato anche da ciclisti professionisti come Liberati, il campione ferrarese Attilio Lambertini, gregario di Bartali negli anni ’50, il modenese Walter Generati, capitano della Gloria (1940-42). Il tavolo di riscontro dell’officina fu realizzato trasformando un tavolo in acciaio della Panini che serviva per mischiare e imbustare le famose figurine, Lino si unì in matrimonio con la figlia di Panini, per il quale costruì anche una bicicletta.
Grazie agli introiti della propria azienda potè gestire questo secondo lavoro senza i limiti di tempo imposti dai margini di profitto. Ad ogni fase di lavorazione di ogni singolo telaio, dall’ideazione, all’applicazione delle decals, potè dedicare molto tempo e lavoro, a volte anche 7 giorni, fino ad arrivare alla massima perfezione. Nell’arco della sua intera carriera di costruttore realizzò solo 120 telai, tutti pezzi unici e originali. Oltre alle estrema qualità e originalità delle sue bici, una delle caratteristiche estetiche e funzionali che distinguevano tutti i telai Messori era la cromatura sotto alla vernice impiegata per preservare il telaio dall’ossidazione. Costruì telai anche per altri marchi del modenese come Luciano Paletti.

Alla fine degli anni ’70 Messori vendette l’azienda e si tornò a concentrarsi di nuovo a tempo pieno sulle biciclette riaprendo un negozio in via Ventimiglia. Fu in quel periodo che, attraverso l’amico Corradi, agente e organizzatore di corse ciclistiche, entrò in contatto con Ernesto Colnago per il quale diventò poi rivenditore. Durante una visita di lavoro nella “Boutique”, così Messori battezza la propria officina di 160mq in centro a Modena, Colnago apprezzò la qualità dei suoi telai e decise di commissionargli alcune lavorazioni complesse come la piegatura dei piantoni per le bici da crono, operazione che all’epoca in pochi erano in grado di eseguire a mano con precisione e senza difetti. Sempre per Colnago realizzò due telai interamente in titanio, forcellini compresi. Nei primi anni ’80 sperimentò la saldatura a TIG e realizzò un carro posteriore con il fodero destro in posizione leggermente asimmetrica per poter mantenere la campanatura della ruota e renderla così più resistente alle forti sollecitazioni.
La collaborazione proseguì con reciproca soddisfazione per diversi anni, Messori fu anche l’ispiratore del concept per la forcella “Precisa” prodotta da Colnago, il quale non perse mai occasione per dimostrargli sincero rispetto e ammirazione per l’artigiano modenese.
Uno delle bici più originali Messori fu sicuramente il modello “Forata” che, su commissione di Ernesto, venne creata come “scultura” per attirare il pubblico negli stand Colnago alla fiera di Milano. Il problema fu che il telaio, così originale e affascinante “rubava” tutta l’attenzione a scapito dei modelli Colnago, ironia della sorte, a Messori fu quindi chiesto di rimuoverla per eccesso di ammirazione. La tenuta dei tubi nonostante i fori così ampi, fu possibile grazie al particolare filo di acciaio da 8mm saldato intorno alle aperture per irrigidire l’area.
A testimonianza della sua attitudine eclettica, oltre alla carriera di imprenditore e di costruttori di bici si è impegnato nella boxe e nel canto, accompagnando anche il maestro Luciano Pavarotti in diverse tournèe nel mondo, ha costruito chitarre in metallo di una in ottone e ha scritto diversi racconti e poesie pubblicati sia in dialetto modenese che in italiano.
Lino ci ha lasciati nel 2015, ma alcuni dei suoi attrezzi continuano a vivere nell’officina pugliese di Gabriele Ardito.
Messori Specialissima 1981. Foto Frameteller
Messori aggiungeva le iniziali del nome del corridore sul tubo orizzontale,
in questo caso “A.D.” solo per le biciclette speciali realizzate per gli amici.
Galleria completa immagini qui.
Lino Messori - Alla velocità del cuore / At the speed of heart
Lino Messori said of himself “I am nobody, but I did a bit of everything”. Born in 1926, in Modena, Italy, Lino quickly became a local fixture both for his incomparable skills and his personality. A master frame builder who also followed a myriad of different passions, spanning from singing with opera legend Luciano Pavarotti to never losing a single boxing match.
Lino Messori made 150 bespoke bikes over the span of his career, many of which were very special for the time and still today.
Film by Luca Campanale. Inspired by Paolo Chiossi. In collaboration with Davide Fonda, Marco Brandoli, Pongo Films and Plus NYC. Music By: Possimiste, Assif Tsahar, Peter Kowald & Rashied Ali.

"Io non sono nessuno, ma ho fatto di tutto"
— Lino Messori
NERI E RENZO
NERI & RENZO
Cesena 1971 – In attività
Cicli Neri e Renzo / Biciclette su misura / Cesena, Italia / 1971 – ancora in attività
Ha collaborato con: Ernesto Colnago (MI), Marastoni (RE), Rauler – Fratelli Gozzi (RE)
Palmàres: Campione italiano Allievi UISP 1956, Trofeo Laigueglia 1964, primo classificato “Traguardi Volanti” Tour de France 1966
Fonti: intervista a Guido Neri
CAMPIONE, ARTIGIANO, TECNICO.
Nato a Cesena nel 1939, si trasferisce nel 1941 con la famiglia a Guastalla, nei pressi di Reggio Emilia terra di grande amore per il ciclismo e di maestri come Licinio Marastoni, dove il padre ha trovato impiego come agronomo presso una grande tenuta agricola della zona.
Come altri grandi artigiani anche nel caso di Neri l’avventura di costruttore di biciclette è stata preceduta dalla quella di ciclista professionista, nel suo caso però dobbiamo aggiungere una terza ulteriore carriera: quella di responsabile tecnico e meccanico.
CICLISTA professionista dal 1962 al 1970, campione italiano UISP nel 1956, ha corso per Torpado, San Pellegrino, SICS, Molteni e Max Meyer, con campioni del come Adorni, Dancelli, Eddy Merckx, Franco Bitossi, Arnaldo Pambianco, Rik Van Looy, Jaques Anquetil e Gianni Motta, tra i tanti successi i primi posti al Trofeo Laigueglia e nella classifica Traguardi Volanti al Tour de France del 1966, l’ultimo corridore italiano a fare il giro d’onore al Parco dei Principi, l’anno dopo il velodromo parigino fu demolito.
ARTIGIANO Al ritiro dall’agonismo nel 1971 la passione per la bici lo spinge ad aprire una sua officina/negozio a Cesena insieme al socio Renzo che ha l’esperienza tecnica necessaria. L’amicizia e il rapporto di collaborazione con i maestri Marastoni e Colnago nati durante la carriera professionistica continuano anche in questo ambito, Neri affida a loro e ai fratelli Gozzi (Rauler) la costruzione di tutti i suoi telai, che vengono poi cromati, verniciati e pantografi internamente. Oggi il negozio/officina è ancora un punto di riferimento per i ciclisti di Cesena e non solo, grazie alla gestione del figlio Alberto anche lui ex corridore e la sempre vigile supervisione di Guido.
TECNICO Oltre alla gestione del negozio Neri intraprende anche la carriera di consulente tecnico-meccanico che gli darà grandi soddisfazioni e la possibilità di girare il mondo. Tutto comincia con la pubblciità di una tra le prime agenzie di viaggi in Italia ad organizzare percorsi avventura in bici all’estero, Guido e si propone come meccanico e viene subito assunto, dal 1999 segue come consulente tecnico la nazionale paralimpica tedesca di HandBike, una delle prime al mondo per medaglie vinte, con la squadra parteciperà alle Olimpiadi di Sidney 2000, Atene 2004, Pechino 2008 e Londra 2012. Sempre come responsabile tecnico ha partecipato anche e al campionato del mondo del Canada del 2003 e alle Olimpiadi di Barcellona con la nazionale di San Marino.
CICLI NERI & RENZO
La Cicli Neri e Renzo apre nel 1971 a Cesena. Guido, ha dalla sua l’esperienza da corridore e, soprattutto, un importante rapporto di amicizia con due grandi maestri telaisti con cui ha collaborato durante la carriera, Ernesto Colnago e Licinio Marastoni.
La prima vera bici da corsa di Neri era una Corradini ma subito dopo il titolo di campione italiano allievi UISP nel 1956 Marastoni lo chiama per offrirgli una sua bici in cambio della sponsorizzazione, da quel momento nasce una lunga amicizia che durerà per decenni. Dal 1957 al 1961 Neri corre come dilettante con il GS. Burro Giglio ed è Marastoni a costruire i telai per tutta la squadra poi, passato a professionista, e fino al suo ritiro, continuerà a correre con i telai di Licitino, anche se ovviamente marchiati con le decals dei relativi team e sponsor. L’ultima bici che Neri chiese di costruire a Licinio era per se stesso e fu forse l’ultima costruita dal maestro artigiano prima della sua scomparsa nel dicembre del 2015.
Ernesto Colnago che conosceva bene Marastoni, al quale aveva carpito non pochi segreti del mestiere, entrò in contatto con Neri quando era meccanico alla Molteni dal 1964 al 1966 e gli fornì le congiunzioni per costruire i primi telai. Neri si rese conto presto che gestire un negozio e costruire telai sono due attività insieme molto impegnative per solo due persone, insieme al socio decisero quindi di affidare a costruttori esterni come Colnago e a Marastoni la produzione di tutti i telai, i quali venivano poi verniciati, cromati e pantografati internamente. Fu sempre tramite Marastoni che Neri conobbe i fratelli Gozzi (Rauler) di Reggio Emilia, i quali si unirono a questo dream team di “terzisti” d’eccellenza.
Neri e Renzo continuarono a produrre bici da corsa artigianali fino agli anni ’80 e Renzo si ritirò dall’attività nel 1993 ma il negozio continua la sua attività vendita e consulenza per i ciclisti di Cesena e non solo grazie alla gestione e al talento del figlio Alberto Neri, anche lui ex corridore professionista.
IL CAMPIONE
Anche per Guido vale la prassi che per correre devi prima di tutto convincere tuo padre. Per fortuna di Guido anche il papà è appassionato di ciclismo e finisce per cedere alle sue insistenze per l’undicesimo compleanno quando gli regala la prima bicicletta, acquistata con grandi sacrifici.
A sedici anni prova ad entrare nella Polisportiva Bagnolese ma i posti per la squadra di ciclismo sono tutti occupati e viene iscritto come pugile. Ben presto si rende conto, a proprie spese, che il pugilato non è lo sport che fa per lui, o almeno non può competere con la sua passione per la bicicletta. È inverno, fa freddo e viene buio presto ma Guido continua ad allenarsi nell’attesa che arrivi il suo momento, ogni sera segue in bici la moto di un suo amico per 15 km fino al vicino paese di Bagnolo dove fanno insieme ginnastica ed esercizi. Durante il giorno lavora e studia all’istituto tecnico di Guastalla dove impara le tecniche di saldatura.
Finalmente l’occasione, è ormai primavera e alla Bagnolese uno degli allievi si ammala e viene chiamato in squadra e comincia qui la sua carriera ciclistica con 9 anni di professionismo, 8 giri d’Italia, 2 Tour De France e 2 Vuelta de Espania, oltre alle numerosissime classiche, correndo con grandi ciclisti come Eddy Merckx, Michele Dancelli, Franco Bitossi, Arnaldo Pambianco, Rik Van Looy, Gianni Motta, Jacques Anquetil.
Sempre da dilettante con la maglia della Bagnolese nel 1956 vince il titolo di Campione Italiano allievi UISP. Nel ’57 passa alla G.S: Masone di Reggio Emilia dove ottiene 9 vittorie e due posti d’onore con diversi piazzamenti nei piani alti della classifica. Alla fine dell’anno la famiglia torna a Cesena ma Guido rimane ciclicamente legato a Reggio Emilia iscrivendosi alla GS Burro Giglio squadra dove milita per quattro stagioni, ottenendo 28 vittorie che lo portano al professionismo nel 1962 chiamato da Gino Bartali alla San Pellegrino. Nei primi due anni da professionista ottiene ottimi piazzamenti concludendo il Giro d’Italia 24° posto nel 1962 e al 47° nel 1963.
All’inizio della stagione 1964, a 25 anni rimane senza squadra a causa dello scioglimento del Gruppo Sportivo San Pellegrino.
“Fu un’esperienza purtroppo negativa, non per colpa di Gino Bartali ma per dei strani fatti che si abbatterono come una bufera sulla San Pellegrino che decise di concludere così la sua avventura nel mondo del ciclismo. Quell’anno il ciclismo professionistico, per motivi che non posso sindacare, si trovò ad annoverare ben due campioni d’Italia contemporaneamente, Fontana (San Pellegrino) e Mealli (Bianchi). La Federazione intervenne risolvendo il problema assegnando il titolo Tricolore a Mealli (Bianchi). La San Pellegrino non condivise la decisione e si ritirò passando il testimone alla “Firte” che ci pagò lo stipendio per due mesi ma, poi, chiuse i battenti e io mi ritrovai disoccupato. Una brutta faccenda, soprattutto per chi, come me, non aveva nessuna voglia di appendere la bici al chiodo. Avevo soltanto 25 anni e tanta voglia di pedalare, non mi persi d’animo e, un soggiorno vinto come premio TV ad Alassio della Sanremo del 1963; ne approfittai anche per studiare il percorso del Trofeo Laigueglia, una corsa nuova alla prima edizione e che inaugurava la stagione ciclistica dei professionisti. In quegli anni, nelle prime corse della stagione, si poteva prendere il via alle corse anche senza essere tesserati da una squadra professionistica, ecco come partecipai al Laigueglia del 1964”
Non riesce a trovarne una e il 23 febbraio si presenta al Trofeo Laigueglia con la maglia del Dopolavoro Masone. È la prima edizione della corsa in programma sulle strade della Riviera Ligure di Ponente e, correndo da isolato, Neri è deciso a mettersi in mostra, talmente deciso da entrare in un sestetto di fuggitivi tra i quali Adorni. Volendo dimostrare il suo valore, Guido attacca con vigore, lo rincorrono, gli danno la caccia, ma il romagnolo resiste e vince in solitudine con 20″ su Bailetti, 41″ su Meco, 54″ su Carlesi, Minieri, Cribiori, Adorni e Zilioli. Un colpaccio che nessuno si aspettava. Questo fu il suo commento al cronista:
“Volevo distinguermi e mi sono preparato alla bisogna. Adesso spero che qualcuno mi dia fiducia. È triste trovarsi nei panni del disoccupato. Non penso di meritare un ruolo del genere…“.
Dopo la vittoria viene chiamato da Giorgio Albani, direttore sportivo della Molteni, e così Neri diventa compagno e scudiero per 3 stagioni di Gianni Motta. Nel 1967 passa alla Max Meyer e nel 1970 conclude l’attività con la maglia della Scic. Non ottiene più successi ma si distingue per generosità e fedeltà verso i suoi capitani e nelle giornate di libertà va in cerca di soddisfazioni personali: è tra i primi in alcune tappe del Giro d’Italia e vince la classifica dei traguardi volanti al Tour de France del 1966; piccole soddisfazioni che hanno il loro significato.
“La più grande soddisfazione da corridore, oltre al trionfo nel Laigueglia, ricordo ancora oggi con grande commozione il Tour del 1966 dove mi classificai al primo posto nella classifica finale dei Traguardi Volanti. Grazie a questa vittoria feci il Giro d’onore sull’anello del Parco dei Principi, ricordo ancora gli applausi della folla e la grande gioia ed emozione provata in quella occasione, gioia ed emozione che vivo tuttora perché, e lo dico con grande orgoglio, sono stato l’ultimo corridore italiano a fare il giro d’onore al Parco dei Principi perché, l’anno dopo, il Velodromo parigino fu demolito.”
La ciliegina sulla torta fu il premio della simpatia attribuito dai giornalisti:
“In genere ad ogni tappa veniva dato a un campione, ma sulle Alpi lo assegnarono a me perché avevo segnalato a radiocorsa la caduta del mio compagno De Rosso sul Monginevro. Niente di speciale, feci solo ciò che tutti avrebbero fatto, ma evidentemente, il fatto colpì”.

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ORTELLI
ORTELLI
Faenza 1921 – 1990
Cicli Ortelli Faenza / Biciclette su misura / Faenza, Italia / 1921 – 1990
Fonti: intervista a Vito Ortelli / troppebici.wordpress.com / “sei chili e mezzo di biciletta” di Luigi Severi / “Vedrai che uno arriverà. Il ciclismo fra inferni e paradisi” / museodelciclismo / Ciclisti Resistenti / Il ciclismo degli inossidabili / Campioni del ciclismo di Romagna, di Ivan Neri, Bacchilega Editore. / Artigiani e Bicilette in Romagna nel ‘900, di Ivan Neri, W. Berti Editore
Collaborazioni: Cino Cinelli / Umberto Patelli / Aride Rivoli / Antonio Alpi
Palmarès: Campione italiano allievi / 14 vittorie da dilettante / 2 volte campione italiano di inseguimento su pista / Campione italiano su strada / Tutti i risultati
Invenzioni: primi anni ’40 Lazzaro Ortelli inventa una tecnica per ottenere la marca in rilievo direttamente sull’acciaio del telaio / fine anni ’40 Lazzaro Ortelli crea il primo tubo in acciaio a sezione stellare /
LAZZARO ORTELLI
Lazzaro Ortelli nacque nel 1892 a Torre di Ceparano, nei pressi di Faenza, la sua storia come artigiano costruttore cominciò molto presto, a soli 6 anni la famiglia lo. mandò a fare l’apprendista alla Marabini di Reda, piccola officina specializzata in riparazioni meccaniche che, dopo la seconda guerra mondiale, crebbe fino a diventare azienda produttrice di telai, prima con il marchio Maga e poi Alma. Siamo nel 1898, in questi anni ragazzini analfabeti lavorano in cambio di vitto e alloggio e la bici è ancora considerata un mezzo di lusso per i pochi che se la potevano permettere.
Dalla Marabini oltre a Ortelli uscirono eccellenti maestri costruttori come Cicognani, Tassinari e Viroli, quest’ultimo fu il meccanico di Moser ai tempi del record dell’ora a Città del Messico. Lazzaro venne assegnato alla riparazione delle ruote.
A quattordici anni Lazzaro aveva quindi già imparato a costruire le ruote e le nozioni base di meccanica e lavorazione dei metalli. Durante la guerra in ragione della sua esperienza venne quindi assegnato all’officina militare come operaio specializzato per la riparazione delle armi. In questo periodo non approfondì l’arte dell’assemblaggio dei metalli, in cui aveva già esperienza, ma imparò a leggere e a scrivere insieme alla basi della matematica, nozioni fondamentali per la gestione della bottega che aprirà negli anni Venti a San Giovannino e nel 1936 a Ponte delle Grazie a Faenza.
Tra i primi clienti di Ortelli vi fu il grossista Zanazzi di Bologna il quale rimase impressionato a tal punto dall’abilità e dalla passione di Lazzaro da commissionargli una bici per la Fiera del Ciclo di Milano. A quel tempo la Fiera riservava un premio per il miglior telaio in esposizione e così Lazzaro costruì il telaio ma non lo firmò, convinto di non poter competere a soli 22 anni con gli altri ben più famosi ed esperti costruttori italiani. Eppure la sua creazione vinse il primo premio e la giuria non sapendo il nome dell’autore lo battezzò Telaio Romagna.
Nei primi anni ’40 Lazzaro riuscì a piegare verso l’interno la sezione di alcuni tubi in acciaio, fino a dargli una forma a stella molto simile a quella dei tubi lanciati da Colnago quarant’anni dopo e prodotti poi da tanti marchi. L’idea di irrigidire il tubo con le pieghe per scaricare meglio lo snervamento del ciclista sui pedali era un’idea rivoluzionaria ma purtroppo non praticabile al tempo, il tubo così rigido infatti tendeva a crepare a causa delle sollecitazioni causate delle strade dissestate di allora.
Lazzaro fu un abilissimo artigiano costruttore di biciclette, il suo amore per le bici comprendeva tanto la meccanica quanto le competizioni e nel 1926 riuscì nell’organizzare a Faenza una corsa, la mitica Coppa Ortelli, nella quale esordì a 13 anni Glauco Servadei.
Vito Ortelli: “Nonostante il suo modesto negozio di meccanico, Lazzaro fu fin dagli anni venti un maestro tra gli artigiani delle due ruote, un uomo semplice, serio e orgoglioso che, oltre all’obiettivo di sfamare la seppur poco numerosa famiglia, dato che sono figlio unico, metteva nel lavoro la passione e l’arte per un mezzo, la bicicletta, che avrebbe in seguito regalato grandi soddisfazioni alla nostra famiglia.Era uno di quei fabbri talmente abili con le mani da riuscire a creare foglie in ferro che sembravano vere fin nei dettagli delle venature. Quando sperimentavo nuove soluzioni in officina era poi sempre lui quello in grado di realizzarle”.
VITO ORTELLI
Nasce a Faenza nel 1921 in un incubatoio dell’azienda Marabini dove lavorava il padre. A soli 6 anni Vito è stato probabilmente il più giovane ciclista dei suoi tempi, nel 1927 infatti le bici per i bambini non erano ancora state nemmeno immaginate ma il padre, riducendo i cerchi e adattando gomme e camere d’aria, riuscì a costruirgli una piccola bici, lasciandola però volutamente senza freni per costringerlo a non andare troppo forte, a giudicare da come andarono poi le cose, uno stratagemma decisamente poco riuscito. Dalle prime scorribande con quella piccola bici Vito tagliò nell’arco della sua carriera molti traguardi diventando uno dei più importanti campioni nella storia del ciclismo, l’unico nell’immediato dopo guerra in grado di competere allo stesso livello con Coppi e Bartali.
Nel 1938 Vito lasciò l’officina dove lavorava con il padre e dove già a 15 anni saldava i telai, per intraprende una carriera di corridore che lo portò ad essere ben quattro volte campione italiano: due su strada, da allievo e professionista e due su pista, battendo entrambe le volte Fausto Coppi. Al Giro d’Italia ottenne un terzo e un quarto posto, vestendo la maglia rosa per un totale di 11 giornate. Durante la guerra, come anche Bartali e altri ciclisti, collaborò con la Resistenza, mentre nel 1948 recitò se stesso nel film “Totò al Giro d’Italia” insieme ai campioni dell’epoca. Nel 1952 si ritirò dalle competizioni a causa di gravi problemi fisici alla gamba rimanendo però vicino al mondo del ciclismo e impegnandosi, insieme agli amici Magni e Cinelli nella difesa dei diritti sindacali dei corridori fondando l’Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani, della quale Ortelli fu vice-direttore per oltre vent’anni.
Il ritorno in officina.
Intorno alla metà degli anni ’50, con un recente passato da grande campione alle spalle, Vito tornò a Faenza per lavorare di nuovo con il padre nell’officina ricostruita dalla distruzione dei bombardamenti grazie ai soldi guadagnati grazie alle sue vittorie sportive.
Furono molti i corridori famosi che fondarono un marchio di biciclette a proprio nome, molto più rari i campioni come Ortelli che le bici le costruirono veramente e con le proprie mani. Gli artigiani più abili si costruivano da soli anche gli attrezzi dell’officina, come il piano di riscontro per l’assemblaggio del telaio che Vito ricavò dallo sportello di un autoblindo tedesco della seconda guerra mondiale abbandonato vicino a casa.
Vito Ortelli: “L’officina si trovava lungo le mura di Faenza mentre il negozio all’angolo del Ponte alle Grazie fino a quando fu bombardato e lo dovemmo trasferire poco più avanti. Le bicicletta venivano assemblate utilizzando una fucina a carbone per scaldare i tubi d’acciaio e poi effettuare la saldatura. Allora tra artigiani c’era stima e rispetto, mio padre e Guerra di Lugo erano i più abili e si fabbricavano da sé i pezzi mentre gli altri erano ancora arretrati e compravano tutto già montato. Come tubi usavamo gli italiani Columbus e in parte minore anche i Reynolds, che arrivavano da Coventry in Inghilterra tramite la Legnano, e i Falk.”

V.O: Le pipe più particolari le facevamo fare ad un bravissimo artigiano di Bologna che riusciva a costruire stampi personalizzati su nostro disegno, così potevamo creare le congiunzioni come volevamo, altre congiunzioni e le pipe le compravamo dall’amico Cino Cinelli, correvamo insieme alla Bianchi da Ragazzi ed eravamo molto amici, a me e a pochi altri (Marastoni) permetteva di usare i componenti speciali in ghisa malleabile che erano più resistenti, bisognava saperle lavorare in quanto la ghisa a differenza della lamiera quando viene scaldata troppo rischia di spezzarsi facilmente durante la lavorazione ma era un ottimo materiale, questi pezzi venivano prodotti in Svizzera (Georg Fischer).

V.O: Le Congiunzioni che oggi non vengono più utilizzate erano a mio parere anche un bell’ornamento del mezzo, anche se non lasciavano vedere se effettivamente la saldatura era fatta a regola d’arte oppure no, i bravi artigiani prima di saldare i tubi dentro le pipe ne smussavano le estremità in modo che che appoggiassero tra loro dentro la congiunzione per far si che il triangolo principale da cui era costruito il telaio fosse effettivamente un tutt’uno, altri per impiegare meno tempo smussavano la tubatura con un taglio netto e la incastonavano senza far coincidere i tubi ottenendo all’insaputa del cliente un prodotto di qualità inferiore.
Per la cromatura si immergeva prima il telaio nel rame per una maggiore protezione, il rame è infatti il materiale che entra meglio nei pori del metallo e veniva utilizzato per primo, poi lo si immergeva nel Nichel per un ulteriore protezione al deterioramento fino a che non prendeva un colore bianco intenso e infine il bagno nel cromo che dava un bel colore alla bicicletta. Dopo la guerra molti hanno cominciato a fare un unico bagno al cromo lucido, procedimento sicuramente inferiore al vecchio ma meno costoso. La verniciatura si svolgeva in tre fasi: prima si apportava del Minio che è Ossido di Piombo per preparre il telaio al primo strato di vernice al quale, con una tela fine, si applicava il secondo strato, in genere un colore nero perché più resistente alle alte temperature.
All’inizio facevo verniciare e cromare da Cicognani e Cimatti di Faenza, poi quando loro si dedicarono ad altri settori andai da Leoni. Era un grande artista, faceva filettature e disegni a mano libera direttamente sui telai dopo averli verniciati, erano delle opere d’arte. Un altro grande artista era Gino Cornazzani di Castelbolognese, faceva delle incisioni splendide e spesso mi servivo di lui per abbellire i telai, sempre per ragioni estetiche sono stato il primo in Italia ad imprimere sul tubo il mio nome in rilievo.
V.O: Ho imparato a saldare all’età di quindici anni ma mi sono dedicato alle corse e nel frattempo ho curato la parte commerciale dell’azienda, a fare l’artigiano ho cominciato solo quando ho appeso la bici al chiodo. Quando ero professionista oltre alle nostre biciclette vendevamo anche quelle delel grandi case per cui correvo in quanto mi facevo pagare in biciclette.
Ho imparato moltissimo osservando mio padre mentre lavorava, ma mi creai ugualmente da solo un piano di riscontro che in seguito tutti mi invidiarono, lo realizzai utilizzando un pezzo di un’autoblinda tedesca che durante la guerra era rimasta incidentata presso casa mia. Portai a casa la lamiera e con un goniometro prestatomi da mio cucino Germano che frequentava studi scientifici iniziai a tracciare un modello di telaio. Apportai così una importante novità rispetto al metodo di mio padre, il mio merito fu infatti quello di progettare il telaio in base all’inclinazione de quindi all’ampiezza delle angolature, che pur lasciando inalterate le misure di lunghezza consentono di plasmare a piacimento la posizione in sella del corridore. Con questo stratagemma riuscivo a valorizzare al meglio le attitudini di ognuno: portando il velocista a sfruttare ancor di più il proprio spunto veloce e lo scalatore a trarre il massimo da una posizione che gli consentisse la massima redditività nello scatto.
Ho avuto ordinazioni da tutto il mondo, da Stati Uniti, Giappone e tanti altri paesi, sapevo di essere valido nel mio lavoro ma ugualmente non ebbi il coraggio di provare ad ingrandirmi. Oltretutto, negli anni ’50 il mercato della bicicletta registro una vera e propria involuzione per l’avvento del motorino.” (1).


IL SALOTTODELLE DUE RUOTE
Vito Ortelli: Grazie alla mie imprese agonistiche la bottega Ortelli, già frequentata da parecchi appassionati del mondo delle corse, divenne più non solo un ritrovo per gli amanti della bicicletta ma una sorta di salotto per sportivi, addetti ai lavori e appassionati“
Nell’arco di sessant’anni nell’officina Ortelli sono usciti più di 5.000 telai e oltre agli amici di sempre come Servadei, Cinelli, Magni e Roncni passarono anche giovanissimi garzoni i quali una usciti da scuola Ortelli fecero poi cose importanti come Aride Rivoli che passo come meccanico alla Salvarani o Antonio Alpi che diventò un abilissimo artigiano.
Vito fu per lungo tempo amico anche di Giuseppe Ambrosini, giornalista e direttore della Gazzetta dello Sport nonché autore nel 1950 del famoso libro Prendi la bicicletta e vai, nel quale molti sono i suggerimenti di Ortelli per le pagine su geometrie e misure dei telaio.

Tante le tante amicizie nate negli anni eroici delle corse e continuate nei decenni successivi, quella con Cino Cinelli è stata forse la più intensa, si conobbero quando correvano insieme alla Bianchi e continuarono a frequentarsi e a collaborare fino alla scomparsa di quest’ultimo nel 2001.
Entrambi entrarono nel mercato delle biciclette al ritiro dalle competizioni sportive, con la stessa passione e visione innovativa ma con approcci molto diversi. Cino mosso da un autentico spirito imprenditoriale, supportato dai fratelli e in particolare dall’esperienza nel commercio a livello internazionale della moglie era destinato a costruire una grande azienda.
Cino prendeva molto sul serio i consigli tecnici di Vito e lo consultava spesso sui temi più importanti che riguardavano la costruzione del telaio. Le congiunzioni in ghisa malleabile prodotte dalla Fisher spesso le ordinavano insieme, anche perchè il quantitativo minimo era di 400 pezzi e Ortelli non produceva più di 100 telai all’anno. Oggi non è raro trovare nelle bici di Ortelli le stesse congiunzioni e componenti che usava in esclusiva la Cinelli, come i famosi forcellini posteriori con la vite passante usati per il modello Super Corsa.
Anche Tullio Campagnolo ebbe con Ortelli una lunga collaborazione, cominciata quando nel 1939 Lazzaro montò sulla bici di Vito il primo cambio Campagnolo, anche se non era allora molto diffuso. Quell’anno Vito vinse 7 gare e il titolo di Campione Italiano Allievi consentendo a Tullio Campagnolo di ricevere il suo primo riconoscimento agonistico. Da allora Ortelli ha sempre montato componenti Campagnolo, fiducia che Tullio ricambiò sempre come quando gli reglò 100 gruppi per il titolo di Campione Italiano su strada del 1948 o con forti sconti sugli ordini dell’officina negli anni a seguire.
Ortelli ha sempre dedicato grande attenzione anche ai dettagli estetici, come il disegno dei suoi bellissimi fregi, l’invenzione del marchio in rilievo sul tubo diagonale (ripresa poi dal giovane garzone Antonio Alpi) e le elaborate pantografie su telai e componenti, vere e proprie sculture in acciaio che affidava ad artisti come il verniciatore Leoni e il maestro incisore Gino Cornazzani.
Negli anni ’80, data l’età ormai avanzata, si fece aiutare nell’assemblaggio dei telai da Umberto Patelli di Bologna.
Vito smise di saldare quando terminò la scorta dei tubi.


LA BICICLETTACHE PESAVA 6.5 Kg
Nel 1946 Ortelli da vincitore del Gran Premio di Nizza può recarsi a fine gara in visita nelle officine del costruttore Urago, italiano emigrato in Francia. Qui la sua attenzione cade su un paio pedivelle in alluminio a quel tempo non prodotte in Italia e una campionatura di tubi Vitus del 1939 con uno spessore di appena 3/10, mai visti prima e ancora oggi mai più costruiti.
Ortelli riesce a convincere Urago a dargli le tubazioni che porta con se a Faneza per costruirsi una bici da crono che, una volta finita e montata, pesa solo 6,5kg mentre il telaio nudo 1,450 kg. L’intenzione è quella di usarla per battere il record dell’ora di Coppi ma purtroppo il tentativo non verrà mai effettuato.
Pochi anni più tardi il danese Ritter gli chiede il telaio per tentare lui di battere il record e Ortelli acconsente a condizione che sul telaio rimanga visibile il proprio nome ma, essendo Ritter nella squadra Coppi Fiorelli, l’accordo sfuma.
L’abilità di Ortelli come costruttore diventò sempre più nota nel settore e a lui si rivolse anche Proietti, D.S. del corridore Baldini, per alleggerire il peso della bici da usare nella crono del Gran Premio di Forlì in programma per il giorno seguente. Ortelli da esperto costruttore sapeva bene che è molto più importante alleggerire le parti rotanti piuttosto che il telaio e gli montò una coppia di cerchi a 36 raggi Scheeren, almeno 280 gr più leggeri di quelli a 40 già montati sulla bici. Il giorno dopo Baldini vinse la gara.














IL BINDADEI DILETTANTI

Ortelli, atleta possente e completo, tanto nelle salite quanto negli sprint, solo problemi di salute e oscure forze contrarie poterono impedirgli di divenire un Campionissimo. A 10 anni, con una bici costruita dal padre ma senza freni e cambio Vito andava seguiva i coetanei corridori, riuscendo a staccarli in salita.
La carriera di campione cominciò nel 1938 quando, superata la diffidenza del padre, si schiera nelle file della Faenza Sportiva con la quale subito mostrò tutta la sua forza con due vittorie e undici piazzamenti. L’anno successivo intensificò la preparazione fisica e il padre gli montò sulla bici il primo cambio Campagnolo nonostante fosse ancora poco diffuso, vinse 7 gare e titolo di campione italiano. Tullio Campagnolo riscosse quindi il suo primo riconoscimento agonistico insieme a Ortelli.
Nel 1940, passato ai dilettanti sempre con la Faenza Sportiva, vince 14 corse su 17, sgretolando la resistenza degli avversari arrivando undici volte solo al traguardo. Grazie a questi successi il commissario tecnico Alfredo Binda gli assegna il soprannome Binda dei dilettanti. A Chiasso si corre per selezionare gli azzurri per le Olimpiadi di Tokyo e Ortelli si impone con un distacco di 6 minuti sul secondo, ma le Olimpiadi saltano a causa della guerra. Nello stesso anno un’impresa ancora ineguagliata: Ortelli e Magni vengono convocati, alla gara a coppie di apertura del Giro della Provincia di Milano, è una gara per soli professionisti e Magni e Ortelli sono gli unici dilettanti ammessi e vincono sia le due gare su pista che la cronometro classificandosi primi assoluti, in gara c’erano campioni come Coppi e Bartali, il quale non prende bene la sconfitta.
La notorietà di Ortelli cresce e, nonostante ancora corra per la Faenza Sportiva, la Bianchi gli concede in uso una loro bicicletta.
Nel 1941, a guerra ormai alle porte, Ortelli pass alla A.S. Forlì, dove nonostante il servizio militare, vince 12 gare tra cui le Coppa Stupazzini, Malatesta, Paolucci, Girolomi, Coppa Figli del Duce, Pasini e Arcangeli ed il prestigiosissimo Astico Brenta.
Nel 1942 la Bianchi gli offre la maglia da Indipendente per il Giro d’Italia, ai dilettanti però è vietato dal regolamento ricevere denaro e la cosa viene scoperta dalla Federazione (a detta di Ortelli in realtà era già tutto pianificato dalla Bianchi per farlo diventare professionista) che lo costringe di conseguenza a passare di categoria.
Esordisce quindi a vent’anni come professionista indipendente per la Bianchi, nel 1942 al Giro d’Italia le maglie maglie in palio sono due: Maglia Rosa per i professionisti e Maglia Bianca per gli indipendenti fra i quali Ortelli.
La prima tappa la vince Leoni, Ortelli essendo indipendente non può partecipare ma vince la terza tappa del Giro di Toscana con 2.33″su Bartali. Dopo la terribile corsa gli amici Vicini e Servadei, come era loro abitudine fare di solito, costringono Ortelli a tornare con loro a casa in bicicletta.
Dopo questa vittoria la commissione tecnica passa Ortelli a professionista togliendogli la Maglia Bianca senza però dargli la Maglia Rosa a scapito del più rinomato Leoni, le proteste di Ortelli cadono nel vuoto e finirà il Giro ottavo in classifica.

Nel 1943 il giro d’Italia venne interrotto dopo solo quattro gare e la Maglia Rosa venne assegnata a Servadei, Ortelli vince, in coppia con Cino Cinelli il GP Enrico Villa davanti al pubblico del Vigorelli. Dal 20 settembre arriva lo stop da Roma a tutte le competizioni e molti corridori vengono inviati al fronte, Ortelli viene spedito in Croazia a Kocevja, Coppi in Africa. Dopo la resa di Badoglio Ortelli fugge dall’esercito e dai rastrellamenti, una volta tornato a casa collabora con la Resistenza sistemando le armi del gruppo di Silivo Corbari.
Finita la guerra, Coppi sceglie di correre con la Bianchi, Bartali con la Legnano mentre Ortelli lascia la Bianchi per la Benotto, ed è subito sfida con i due rivali: Ortelli vince in Toscana battendo Bartali nel circuito di Galluzzo e alla Milano-Torino dove arriva prima staccando anche Coppi.
Alla semifinale del campionato italiano di inseguimento su pista del 1945 all’Autovelodromo di Torino, nonostante il lungo viaggio seduto su un camion per il trasporto di maiali, Ortelli vince staccando Coppi di oltre 60 metri, al tempo di record: 6’23” e alla media di 46,600 km/h, in finale batte facilmente Leoni laureandosi campione italiano su pista.
Al velodromo Pacciarelli di Fiorenzuola vince anche la sfida successiva con Coppi, sempre nell’inseguimento su pista.
Con i soldi guadagnati nelle corse Ortelli aiuta il padre a ricostruire l’officina distrutta dai bombardamenti, il quale nel frattempo continua a lavorare in una bottega di fortuna.
Nel 1946, quando già i problemi fisici cominciano ad emergere, bissa il successo della Milano Torino, vince il Trofeo XX Settembre e una tappa del suo primo Giro d’Italia, nel quale arriva terzo dietro a Bartali e Coppi, vestendo per 5 volte la Maglia Rosa, Giro che probabilmente avrebbe vinto se non fosse stato per una lista infinita di avversità tra cui: sassi e fucilate da parte degli attivisti anti-italiani sloveni, una forte pertosse che lo tormentò per due terzi del Giro e una combina organizzata contro di lui dal suo direttore sportivo Graglia.

Un anno dopo, davanti ad un Vigorelli tutto esaurito con 15.000 tifosi in tribuna e 2.000 sul prato, è ancora sfida diretta con il Campionissimo Coppi nella finale di inseguimento su pista e ancora una vittoria di Ortelli, che bissa così il titolo di campione italiano su pista.
Dal 1947, passa alla Atala, con la quale nonostante i problemi fisici e un intervento alla gamba si fossero aggravati, ottenne il 2° posto al campionato italiano su strada, dietro a Coppi, e vince sia il Giro del Piemonte davanti a Ronconi e Vicini, costituendo un podio tutto romagnolo, che il GP Città di Milano.
Nel 1948 vince sia al GP di Romagna che il GP di Milano mentre al Giro d’Italia manca il podio di pochissimo classificandosi al 3°posto nonostante 7 forature in una solo tappa e una grave caduta causata da un tifoso che lo colpisce con un secchio d’acqua facendolo rovinare a terra, finisce il Giro con lo stesso tempo di Cottur che però avendo indossato la maglia rosa per 3 giornate in più si prende il podio.


Sempre nel 1948 l’ultimo acuto ma il più prestigioso, Ortelli dopo l’ennesimo duello con il rivale Coppi conquista il titolo di campione italiano su strada. Il titolo vale la possibilità di partecipare al Mondiale ma è l’anno del ritiro di Coppi e Bartali che finisce per danneggiare Ortelli il quale nonostante abbia la forma fisica sufficiente per stare alla ruota del belga Schotte, che poi vinse il titolo, rimane indietro perdendo tempo nell’attesa delle disposizioni dei due “capitani”, finendo purtroppo solo 8°.
Quell’anno Tullio Campagnolo, dopo la vittoria del tricolore, gli regala 100 gruppi del suo cambio per premiare quella fedeltà che Ortelli gli ha sempre dimostrato fin da ragazzo.
Dal ’49 in poi il declino agonistico a causa dell’aggravarsi dei problemi fisici al ginocchio destro, fino al ritiro nel 1952 con tanti rimpianti per il campione che poteva essere e che non fu ma con tante storie di successi, coraggio e amicizia da raccontare una volta tornato a casa.

Con i suoi suoi allievi giovanissimi della S.C. Faentina Ortelli ha sempre insistito sull’importanza dell’allenamento in pista. insegnandogli prima di tutto a stare in equilibrio con i piedi sui pedali al semaforo.
Fu infatti uno dei pochi a capire il valore dei velodromi la formazione degli atleti, visione isolata dato che in Italia sono stati chiusi e lasciati alla rovina mentre paesi come Inghilterra, Francia e Australia sono emersi nelle grandi competizioni con campioni che vengono proprio dalla pista. A quasi 90 anni ancora seguiva i giovanissimi della S.C. Faentina offrendo tanti preziosi consigli ai futuri campioni.
PALETTI
PALETTI
Modena 1971 – in attività
Fonti: intervista a Michele e Giuliana Paletti
Hanno corso con bici Paletti: Michele Paletti: campione italiano Juniores e Allievi, Mapei – Tour de France, nazionale italiana. / Riccardo Riccò campione italiano Juniores / Claudio Vandelli, Oro olimpico, cronometro a squadre, Los Angeles
Ha collaborato con: De Rosa / Savigni / Marastoni / Dosi / Grenzi-Virginia / Giuseppe Pelà
Brevetti: Leve del cambio al tubo con fili interni al telaio / Deragliatore anteriore regolabile fissato al telaio / Tubi sagomati Oria / Prototipazione telai
Ci sono persone che attraverso immaginazione e sensibilità creativa riescono ad vedere il futuro e a dargli forma con le proprie mani, Luciano Paletti, artigiano del modenese, nel corso della sua carriera di meccanico ha disegnato, realizzato e brevettato alcune rivoluzionarie innovazioni nella telaistica delle biciclette con almeno trent’anni di anticipo rispetto ai colossi internazionali.
Luciano nasce a Bondeno nel 1947, da giovane corre in bici fino alla categoria dilettanti, oltre allo sport in sé ad appassionarlo è anche la “macchina” bicicletta e il suo funzionamento, alla fine degli anni ’60 lavora nelle botteghe di diversi artigiani del modenese tra le quali quella del telaista Orazio Grenzi dove, oltre alle fondamentali nozioni tecniche apprende anche lo spirito innovativo del maestro.



Nel 1972 Grenzi accetta la proposta dall’imprenditore Eugenio Rampinelli (vedi Cobra® by Roto) di dirigere la 3T Tecnotelai di Bologna, vende quindi l’officina di Vaciglio (Modena) a Paletti, il quale poi per qualche anno marcherà i telai con la doppia firma Grenzi/Paletti. Lo scambio tra i due artigiani proseguirà anche negli anni a venire, è infatti proprio grazie al passaggio dell’attività che Paletti entra in contatto con il sig. Ognibene, l’ingegnere modenese che aveva collaborato con Grenzi nella realizzazione delle sue invenzioni e che sarà poi l’artefice della complessa ingegnerizzazione dei brevetti di Paletti alla fine fine anni ’70.
La sera, dopo il lavoro, Luciano continua a sperimentare nella cantina di casa, dove costruisce la sua prima bici. Nel 1969 il meccanico Savigni di Castelnuovo lo accompagna a Milano per presentarlo a De Rosa, è qui, nell’officina milanese del grande artigiano che probabilmente Paletti decide cosa farà da grande, nei mesi successivi torna più volte nell’officina di De Rosa come aiutante per apprenderne il più possibile i segreti.
Bicicletta da strada Savigni con telaio De Rosa, 1970-71. / Galleria immagini completa qui / Foto Frameteller
Bici strada modello Gran Criterium firmata Virginia Paletti. I primi telai di Paletti riportavano la doppia firma ed erano costruiti da Orazio Grenzi. Congiunzioni Nervex, scatola movimento centrale Roto alleggerita.
RIVOLUZIONE IN 3 ATTI
Modena 1972, a pochi chilometri da Maranello e la Ferrari, Paletti apre la sua officina. In pochi anni acquisisce le nozioni necessarie per sperimentare nuove soluzioni migliorative nella telaistica e nella meccanica delle biciclette. A metà degli anni settanta, probabilmente stimolato anche dai tentativi dell’amico Licinio Marastoni, lavora ad una soluzione per fissare il deragliatore anteriore direttamente al telaio, nasce così il primo prototipo, elegante, funzionale, leggero e, a differenza di quelli realizzati da Marastoni, regolabile in altezza. Nel 1978 deposita l’invenzione all’Ufficio Brevetti, il primo vero attacco a saldare per deragliatore è ufficialmente realtà.



Nel 1980 altre due importantissime invenzioni di Paletti, coadiuvato dal brillante lavoro progettuale dell’ingegnere Ognibene di Modena conosciuto grazie a Grenzi, brevetta dei particolari comandi del cambio con i cavi interni al tubo diagonale, la sua attenzione si sposta poi ai freni e con trent’anni di anticipo progetta e realizza un sistema per inserirli all’interno del telaio della bici. I tre brevetti, caratterizzati per l’alto livello di innovazione, design e progetto ingegneristico, fanno in realtà parte di un unico e affascinante progetto: la bici completamente senza cavi a vista, dopo quattro anni di lavoro, 680 ore di ingegneria e un investimento di quasi 30 milioni di lire, nell’ottobre del 1981 il sogno diventa realtà e il prototipo verrà presentato ufficialmente al mercato nella fiera di Milano del 1983.



Paletti Laser anni ’80 con livrea di Mario Martini / Foto Loris Casolari
Paletti strada primi anni 70. Alleggerimento congiunzioni serie sterzo simile a quelle sei modelli Somec dello stesso periodo. Perno freni e attacco deragliatore anteriore saldati al telaio (come nei modelli di Grenzi e Marastoni). I primi telai di Paletti e Grenzi (Virginia) montavano spesso scatole del movimento centrale realizzate da Giuseppe Pelà. Nella foto si notano inoltre le guide dei cavi dei deragliatori saldati al telaio, riscontrabili nei telai di Marastoni degli stessi anni, a dimostrazione di come ogni piccola innovazione fosse condivisa in breve tempo dai migliori artigiani della zona.
Paletti strada primi anni 70. Alleggerimento congiunzioni serie sterzo simile a quelle sei modelli Somec dello stesso periodo. Perno freni e attacco deragliatore anteriore saldati al telaio (come nei modelli di Grenzi e Marastoni). I primi telai di Paletti e Grenzi (Virginia) montavano spesso scatole del movimento centrale realizzate da Giuseppe Pelà. Nella foto si notano inoltre le guide dei cavi dei deragliatori saldati al telaio, riscontrabili nei telai di Marastoni degli stessi anni, a dimostrazione di come ogni piccola innovazione fosse condivisa in breve tempo dai migliori artigiani della zona.
In 43 anni di attività i modelli Paletti, tutti numerati, si caratterizzano per qualità del telaio e componentistica, precisione esecutiva, design ricercato e grafica originale, nella vasta gamma si distingue il Meteor strada e pista, oggi molto ricercato dai collezionisti, per questo modello Paletti disegno e fece realizzare dalla ORIA tubi speciali con una originale forma incavata, successivamente usati anche da Walter Dosi per il suo modello Futura nel 1975.
Etichetta tubi ORIA in acciaio Molibdeno realizzati su disegno di Luciano Paletti.
Paletti strada Meteor, tubi Oria su disegno originale di Walter Dosi e Paletti. Galleria immagini completa qui. Foto Frameteller
Paletti Meteor seconda generazione.
Prototipo per telaio da strada – design di Luciano Paletti. Progetto PMZ, società fondata da Paletti con i soci Mattioli e Zanasi.
In seguito alla chiusura della PMZ Mattioli e Zanasi aprirono prima la MAZA e successivamente la Emmezeta, ancora in attività. Foto: Archivio Paletti
Paletti pista con congiunzioni Nervex / Foto Lori Casolari
Paletti pista modello Oro 2000 / Foto: Loris Casolari
Paletti Super Prestige 10° Anniversario. Gruppo Campagnolo pantografato e bagnato in vero oro / Foto: Gianni Mazzotta per Frameteller.
Paletti strada modello Prestige White Laser / Foto Catalogo Paletti.
Paletti strada modello C Record / Foto Catalogo Paletti.
Paletti Crono Los Angeles 1985 / Advertising Paletti
Paletti Strada Victory Corsa Classic 1983 / Advertising Paletti
Telaio Paletti strada, modello “Concord” realizzato con tubi Columbus “Multishape”
Paletti “Ghibli”, tubazioni Oria Cromo Mannesman, forcella Columbus Air 26″. Fine anni ’80.
Paletti strada saldata a TIG
La passione per lo sport
Nel 1997 il figlio Michele entra ufficialmente in officina dove oltre al padre lavora anche la madre Giuliana e un telaista. Michele già a 8 anni aiutava il padre a smontare le bici dei clienti (allora era uso comune per i corridori riverniciare il telaio ogni anno) e a 13 anni già assemblava i telai. All’esperienza in officina aggiunge quella agonistica prima come allievo e juniores vincendo ben tre tricolori nel 1982 e 1985, poi come professionista nel team Ariostea, fino alla partecipazione al Tour de France con la Mapei e la convocazione nella nazionale azzurra ai Mondiali.
Luciano e il figlio hanno infatti sempre accompagnato all’amore per la progettazione della bicicletta la passione per il ciclismo agonistico, nel team Cicli Paletti Riccardo Riccò conquistò il tricolore Junior nel 2001 e Luciano stesso rivestì negli anni ’80 l’incarico di tecnico regionale di ciclocross, inventandosi anche una pista naturale sui prati di fronte all’officina. Paletti ha messo tanti giovani sui pedali, tra i quali anche l’olimpionico di Los Angeles 1984 Claudio Vandelli portandolo a livello nazionale. Tre mesi prima della sua scomparsa Luciano Paletti ha fondato la ASD Simec Fanton Cicli Paletti, squadra di allievi che raduna ragazzi della fascia pedemontana modenese tra i 15 e i 16 anni.
Luciano Paletti in azione, 1962 / Foto Archivio Paletti
Michele Paletti e Pantani al Giro d’Italia del 1991 / Foto Archivio Paletti
Michele Paletti, team Mapei, 1994 /Foto Archivio Paletti
Rene Arnaux /Michele Paletti, team Mapei, 1994 / Foto Archivio Paletti
1985 Vandi con la maglia di leader nel giro del Trentino su una delle prime bici Paletti in carbonio con congiunzioni in alluminio prodotta dalla Alan. / Foto Archivio Paletti
PATELLI
PATELLI
Bologna 1948 – 1998
CICLI PATELLI “Biciclette di classe“
Umberto Patelli / Vendita bici su misura / Bologna, Italia / 1949 – 1998
Sergio Patelli / Corridore / Vendita bici su misura / Bologna, Italia / 1965 – 1998
Luigi Patelli / Maestro artigiano costruttore / Bologna, Italia / 1940 – 1988
Fonti: Camera di commercio di Bologna / intervista a Sergio Patelli e il figlio Fausto / intervista a Dario Venturi e Roberto Morelli (dal 1998 titolari della Cicli Patelli snc)
Agonismo: 1953 Sergio Patelli, Campione Italiano Dilettanti / 1957 G.S. Patelli, Campione Italiano Dilettanti
Hanno collaborato con: Rauler, Ortelli, Testi, Veneziano
> Catalogo 1984 > Catalogo 1985 > Catalogo 1986
Per tutta la vita i fratelli Umberto, Luigi e Sergio Patelli si sono sostenuti a vicenda, insieme hanno attraversato un secolo di guerre e miseria. Ma nella loro storia c’è un quarto elemento che la rende speciale, una particolare energia che ha rafforzato il loro legame oltre il sentimento fraterno, l’inesauribile passione per la bicicletta.
Durante la guerra.
Nei primi anni ’40 prima Umberto e poi Luigi vengono assunti alla Cicli Testi di Bologna, piccola azienda artigiana specializzata nella costruzione di biciclette che una ventina d’anni più tardi diventerà una importante azienda motociclista.
Sergio, nato nel giugno del 1928, è il più piccolo e sicuramente il più ossessionato dei tre dalle biciclette, cosa ci può essere di meglio nella vita che lavorare sulle bici insieme ai fratelli maggiori? Niente, però erano proprio loro a inibirlo “siamo già in due a far questo mestiere Sergio! Bisogna che tu fai qualcos’altro.” e lo mandano a fare il calzolaio dove non resiste a lungo “mi facevano legare lo spago tutto il giorno” dopo un anno di sofferenze infatti riesce a farsi assumere dalla Testi, dove il fratello Luigi nel frattempo è già un saldatore provetto, mentre lui viene assegnato all’assemblaggio con Umberto, ma solo dopo aver passato un periodo di “gavetta” durante il quale ha costruito qualche migliaio di ruote.
S.P.: “Luigi era un incosciente totale. Un giorno, durante la guerra, gli alleati stavano bombardando il piccolo ponte a pochi metri da casa nostra e lui stava lì, alla finestra mentre a voce alta gli dava degli imbecilli perché non riuscivano a centrarlo. Quando gli ho fatto notare che era il caso di scappare giù nel rifugio e che potevamo anche morire da un momento all’altro lui mi ha detto – Sergio vacci te nel rifugio e subito! Però stai attento e copriti che è umido e ti vengono le artriti – Beh, in effetti poi le artriti mi son venute davvero.“
La tragedia della guerra non ha risparmiato nessuno, tantomeno la famiglia Patelli che ha perso la mamma a soli due mesi dalla resa.
Dopo la guerra.
Nel 1948 tutti e tre i fratelli si licenziano dalla Testi, pochi mesi dopo Umbeto apre il negozio in via San Vitale dove assume i due fratelli. La bottega, che vende biciclette da passeggio e telai speciali da corsa saldati da Luigi, rimane in attività fino al 1964 quando Umberto ne trasferisce la sede in via Matteotti e Luigi apre una sua officina in via Massarenti che attrezza a dover per la costruzione dei telai. Nel frattempo, sei anni prima, Sergio aveva aperto un negozio a suo nome nel quartiere Corticella, dove era andato ad abitare e dove era molto popolare grazie ai suoi successi da corridore, come il Umberto vende bici da corsa saldate da Luigi oltre ad accessori vari e abbigliamento sportivo.
Entrambi i negozi ebbero da subito un grande successo e tutti e tre si trovarono a lavorare anche 12 ore al giorno per tenere dietro alle tante commissioni.
Gli atti di apertura delle rispettive attività dei tre fratelli Patelli.

Umberto, Sergio, Luigi, il triangolo d’acciaio.
Ricapitolando, Luigi salda i telai grezzi sia per Sergio che per Umberto, i quali entrambi le firmano a proprio nome ma nel frattempo si aiutano a vicenda alternandosi nel lavoro di finitura e assemblaggio.
S.P.: “Io e Umberto ci davamo spesso il cambio nel processo di finitura che consisteva nell’andare fino a Funo (provincia di Bologna) dove c’era un artigiano che faceva la sabbiatura fine, i telai sai sono delicati e le altre sabbiature non andavano bene.
Poi bisognava passare da Lanciotto Righi, il “Mago della Lima”, il migliore in assoluto nella finitura a mano, di giorno faceva il limatore alla Testi e noi gli portavamo i telai direttamente a casa la sera. Poi c’era la fresatura e la cromatura durante la quale ai nostri telai facevamo fare il bagno integrale, così venivano ricoperti interamente da uno strato di Nichel che li avrebbe protetti a vita dalla ruggine.
Io poi ero particolarmente pignolo, un giorno mi è capitata in mano una scatola del movimento centrale di Cinelli fatta un po’ male, da quella volta sono sempre andato direttamente da loro con il campione in mano e le sceglievo una ad una. Ero diventato famoso alla Cinelli per questa mia pignoleria e Cino lasciava detto agli impiegati di chiamarlo quando arrivava Sergio Patelli perché ci teneva sempre a scambiare due chiacchere con me, solo che mia moglie mi faceva sempre una gran fretta perché il giro da fare era lungo, dovevo passare anche da quello delle pompe artigianali e poi il maglificio per le divise, le scarpe…”
Dodici anni dopo.
Nel 1976, Umberto acquista un capannone in via Paganino Bonafede dove apre una grande officina per la costruzione di telai su misura, oltre alla produzione di dime, accessori e attrezzi da vendere nei due negozi. Il maestro saldatore e pantografo è ovviamente sempre Luigi, il quale nel frattempo è diventato un abilissimo artigiano, in officina anche alcuni operai addetti all’assemblaggio e alle rifiniture. I telai Patelli diventano ben presto ambiti per leggerezza, qualità e finitura dei dettagli sia tra i corridori che tra i meccanici della regione e poi in tutta Italia.
L’officina è rimasta in attività fino al 1990, da quel momento in poi la saldatura dei telai viene affidata a terzi di cui i fratelli avevano stima, come l’artigiano “Silvestro” di Pianoro. Nel ’97 Umberto, arrivato alla pensione, ha lasciato il negozio di via Matteotti ai suoi collaboratori Roberto e Dario, grazie ai quali oggi la Cicli Patelli è ancora un prezioso punto di riferimento per i ciclisti bolognesi. Nello stesso anni anche Sergio chiude il negozio dopo 40 anni di attività.

Sergio Patelli.
Diversamente dai fratelli Sergio correva in bici e correva anche veloce. Da dilettante ha vinto ben 49 gare, un Giro del Sestriere e il titolo di Campione Italiano nella cronomotro a squadre del 1953, alla media di 42,2 kmh su 120 km delle strade di allora.
S.P.: “Ci fu una volta nel ’47, quando correvo per la Velo, che sono partito da solo per partecipare come indipendente alla gara internazionale Gran Premio del Rosso di Montecatini. A un certo punto abbiamo affrontato il monte Oppio, una salita durissima che non si vedeva mai la fine, mai, a un certo punto mi è scappata la pazienza e mi sono fermato sul fianco della strada e da una delle mie cinque tasche ho tirato fuori una ciambella. Niente roba strana eh?! Solo una ciambella.
Non ho fatto in tempo a finirla che vedo uno della giuria corrermi incontro e urlare “Ma te! Cosa fai? Sei pazzo? Eri terzo e ti fermi a mangiare??! Dai che ti son passati davanti in tanti ma forse arrivi ancora tra i quindi premiati!”.
A quel punto son tornato in sella e sono andato dietro al gruppo, arrivato alla prima curva mi sono accorto che in realtà ero già arrivato in cima e son cominciate le discese, giù fino a Montecatini. Una volta arrivato sulle strade del paese una macchina mi si è messa davanti facendomi cadere, accumulo ancora ritardo ma riesco ad alzarmi e a ripartire Quando arrivo allo stadio c’è quel signore di prima “Ma dove sei sparito un’altra volta??? Dai allora corri che forse ce la fai! Vaiiii!!!”. Entro nello stadio e scopro di essere arrivato quindicesimo! Mi diedero come premio ben 1.500 lire e poi altre 6.500 perché ero il più giovane tra i premiati, avevo 19 anni.”
Sergio si ritira dall’agonismo nel 1954 a 26 anni. “Mi ero fidanzato e poi volevo lavorare con i miei fratelli“. Peccato perché era davvero un talento promettente ma la categoria Dilettanti in quegli anni non era cosa facile. Oggi ha 88 anni e un giovanissimo senso dell’umorismo
S.P.: “Tra fratelli ci siamo sempre aiutati, sempre insieme. Luigi, il più grande di noi quattro, fece la bici anche a mia sorella, che ovviamente era anche la sua. Dopo le corse mi chiamava sempre per sapere com’era andata e se avevo preso la pioggia veniva a casa mia, svitava la sella e la massaggiava con il grasso, così che non facesse le grinze. Quando ho aperto il negozio mi ha costruito una pompa enorme e indistruttibile ma anche bella dura da spingere. È ancora qua, la pompa, pronta per quelli che vengono a trovarmi con le ruote sgonfie, adesso però gli dico che se la devono usare da soli.”

Paolo Giordani, collaboratore di Umberto Patelli.



















PETTENELLA
PETTENELLA
Milano 1943 – 2010
Vanni Pettenella / Biciclette su misura / Milano, via della Semplicità Italia / 1943-2010
Fonte: Fixedforum, La Gazzetta dello Sport,
Ha collaborato con: Shimano, Colnago, Velodromo Vigorelli
Invenzioni: Brevetto per la schiacciatura aerodinamica dei tubi del telaio / apparecchiature di elettrostimolazione / ciclocomputer a manubrio / pedali disegnati su base biodinamica.
Palmares: professionista dal 1965 al 1975 / Oro inseguimento su pista Olimpiadi di Tokyo nel 1964 / 2 volte oro agli europei di Anversa / 7 volte campione italiano su pista / detentore del record del mondo di surplace nel 1968, 1 ora e 3 minuti / dal 1976 Direttore tecnico Velodromo Vigorelli / Commissario nazionale italiana velocità
Giovanni Pettenella, detto Vanni, nasce a Caprino Veronese il 28 marzo 1943. La sua eroica carriera inizia come pulcino del Milan, ma il padre era stato ciclista, dilettante e certe cose rimangono nel sangue. A 16 anni, con il consenso del padre si iscrisse alla scuola Fausto Coppi al Vigorelli, dividendo le giornate tra allenamento in pista e lavoro nel negozio di alimentari della famiglia
“…giravo, studiavo, copiavo, sprintavo, rallentavo, tentavo il surplace, cadevo, mi attaccavo alla rete, i piedi dentro nei puntapiedi, io e la bici sdraiati, appesi, in bilico, come su una parete. Non mi restava che chiamare il Renzo, il custode, per farci tirare giù“.
Con le sue vittorie, Pettenella ha valorizzato l’immagine vincente dell’Italia nel mondo. Oltre all’oro olimpico, a Tokyo conquistò anche l’argento nella gara di velocità con partenza da fermo. Vinse il gran premio Città di Milano nel 1963, fu medaglia d’oro nella gara di tandem ai Giochi del Mediterraneo a Napoli nel 1963, campione italiano di velocità su pista negli anni 1960-1961-1962-1963. Ad oggi resiste ancora il suo record del mondo di surplace, 1 ora e 5 minuti, ottenuto nel campionato italiano del 1968.
“Potevo cambiare dieci volte in una volata sola. Io li guardavo tutti, i miei avversari, e mi sembrava che non ce ne fosse uno più debole di me. Allora mi ingegnavo. Se il mio avversario preferiva partire lungo, lo facevo partire il più corto possibile. Se preferiva fare la volata in testa, gli stavo davanti. Se preferiva lanciarsi, lo facevo partire da fermo. Se preferiva partire da dietro, facevo il surplace. Ho il record del mondo di surplace: un’ ora, 5 minuti e 5 secondi, Varese, campionati italiani 1968, semifinale con Bianchetto. Poi svenuto. Lui. In finale con Beghetto. Perso. Io.
In pista non si guarda in faccia a nessuno. Il gioco del su e già. Il gioco che a 70 all’ora lo lasci passare e poi lo mandi sul prato o lo sbatti sulla rete. Il gioco che in certi punti della pista ci si sta da soli.”.
Al ritiro da professionista, nel 1975, aprì la sua officina-bottega in Via della Semplicità, vero e proprio laboratorio in cui c’era dentro di tutto: arte e scienza, tavolo e letto, cucina e museo, capolavori e rottami. Per la sua vittoria a Tokio Pettenella era ancora molto apprezzato e rinomato in Giappone, paese con il quale mantenne solide relazioni professionali anche come costruttore di biciclette. Fu il primo in Italia a montare le proprie bici con gruppo Shimano Dura Ace, marchio a metà anni ’70 ancora pressoché sconosciuto nel nostro paese, (la distribuzione organizzata dei prodotti Shimano in Italia prenderà avvio solo alla fine degli anni settanta con la costituzione della Mic di Amedeo Colombo), una sinergia che venne poi consolidata da un vero e proprio contratto tra le due parti. Alla fine degli anni settanta Vanni costituì un Gruppo sportivo Pettenella-Shimano, ancora oggi in attività sotto al nome Ciclisti Dergano.
“…le Seigiorni. A Montreal si correva nello stadio dell’ hockey, due rettilinei e due virgole come curve, lì si imparava alla svelta, e chi non imparava, volava via. La prima sera me lo vedo ancora, De Lillo, che volava sopra i tavoli. Di Seigiorni ne ho fatte una decina e, a Melbourne, in Australia, ho anche vinto. Bel mondo di banditi, in pista, e fuori. Una volta Faggin fece ritirare i premi a un certo Campana, italiano, che abitava lì , Adelaide, Australia. Campana ritirò volentieri i premi, andò a giocarli ai cavalli e non si fece più vedere.”.
Forte della sua esperienza di pistard professionista riuscì nell’ideare e ad apportare sulle proprie biciclette diverse e importanti intuizioni meccaniche e strutturali, purtroppo non valorizzate a livello industriale a causa delle ristrettezze economiche. Nei primi anni ’70 il concetto di design aerodinamico nei telai delle biciclette da competizione era un concetto ancora sconosciuto ai più ma non a Pettennella, il quale in soli due anni di studio e ricerca riuscì, primo nella storia, a realizzare e brevettare un sistema (pressione a freddo) per ovalizzare i tubi dei telai. Nel 1982 Ernesto Colnago acquistò i diritti di uso del brevetto e incaricò lo stesso Pettenella di realizzare i telai delle sue Oval CX (1983-1985).
Altre sue importanti invenzioni furono la prima ruota a 4 razze, le prime apparecchiature di elettrostimolazione da utilizzarsi al posto dei massaggi convenzionali, il primo ciclocomputer a manubrio e i primi pedali disegnati su base biodinamica.

Dopo la fine della carriera da professionista, oltre al lavoro di costruttore, fu direttore tecnico del velodromo Vigorelli e Commissario Tecnico pista italiana, portando nel 1976 ai Mondiali di Monteroni di Lecce, Francesco Moser all’oro nell’inseguimento individuale, Giordano Turrini all’argento nella velocità e Avogadri al bronzo nella specialità dietro motori. Alla sua guida nel 1972, a Parigi, la nazionale italiana partecipante ai Mondiali Militari vinse tutte le medaglie in palio, come anche arrivò all’oro il quartetto Morbiato, Algeri, Bazzan, Borgognoni ai mondiali di Varese nell’inseguimento a squadre.
La pista fu per Vanni la vita, sempre disponibile a raccontare storie e spiegare a vecchi e giovani appassionati i trucchi del mestiere, come frenare solo usando la mano con il guanto sulla ruota o incollare correttamente i tubolari ai cerchi. Ci ha lasciato purtroppo a soli 66 anni, dal febbraio del 2010 riposa nella cripta sotto il Famedio del Cimitero Monumentale, il Pantheon dei Grandi di Milano.










RIVOLA
RIVOLA
Massa Lombarda (BO) 1963 – 2005
Cicli Rivola / Biciclette su misura / Massa Lombarda, Italia / 1963 – 2005
Ha corso con bici Rivola: José Manuel Fuente
Palmares: Campione Italiano Allievi 1984 con società ciclistica Cotiglionese
Fonti: Intervista a Fausto Rivola, “sabato sera” del 30/9/2006 a cura di Lou Del bello. / Artigiani e Biciclette in Romagna nel ‘900, Ivan Neri
Ha collaborato con: Campagnolo / Umberto Chiesa
Come tante altre piccole imprese per la costruzione di cicli dell’epoca, quella della famiglia Rivola non si riduce alla semplice dimensione di lavoro finalizzato al guadagno, dietro ci sono soprattutto relazioni umane, come quella tra padre e figli e tra costruttore e corridore.
La storia del marchio inizia con Giovanni, nato nel 1925 e chiamato “il Maestro” dai concittadini massesi, grande appassionato di bici e tifoso di Coppi tanto da chiamare il primo figlio Fausto, nella speranza che potesse un giorno diventare corridore. Faceva il muratore ma la passione per il ciclismo finì per diventare la sua vita. La carriera di Giovanni nel mondo del ciclismo inizia alla fine degli anni ’50 nello scantinato di casa intorno, lì modella su misura a mano le selle in pelle di bufalo “Brooks”, su commissione di campioni come Gimondi, Adorni, Ferretti e Reggi.
Giovanni ebbe due figli, Fausto e Gianni, quest’ultimo già a nove anni passava le vacanze chiuso nella nuova officina aperta dal padre ad imparare e, finita la scuola, cominciò a lavorare con padre e fratello in officina.
Gianni Rivola (2005)
“Allora andavano di moda un tipo di sella chiamato Brooks, in cuoio di bufalo, la usavano tutti i campioni. Mio padre le lavorava prima che venissero usate dai corridori, in modo che prendessero già la forma della seduta, poi veniva smontata, ed infine rimontata e tirata, creando così una sella su misura. In quel periodo venivano a casa mia ogni anno, a prender due o tre selle per ciascuno, i tre campioni Gimondi, Adorni e Ferretti”. Col tempo ha iniziato a fare anche piccole riparazioni e ha continuato fino ai primi anni ’60. Credo che la prima bicicletta marchiata a suo nome sia uscita nel 1963 e costava settantamila lire. Era una bella cifra per quegli anni, ma si tratta di una bici artigianale.
Mio padre particolarmente bravo a fare le ruote, completamente a mano. Anche mio fratello Fausto in negozio si specializzò in questo lavoro, imparò da mio padre e continua a farlo ancora oggi (ndr 2022)”.
È nei primi anni ’60 che Giovanni decide di fondare il proprio marchio di biciclette da corsa. I primi telai li ordinava alla Rossin di Milano ma la svolta avvenne quando nel 1963 riuscì a coinvolgere nella costruzione dei suo telai il maestro telaista bolognese Umberto Chiesa, di cui Rivola già conosceva e apprezzava il lavoro. Iniziò così una lunga collaborazione, Chiesa prendeva le misure ai clienti e costruiva i telai mentre del lavoro di assemblaggio e rifinitura si occupava Rivola, sempre nello scantinato di casa ma. Dato il veloce successo che ottennero le sue bici, già l’anno successivo Giovanni si decise a lasciare il lavoro da muratore per dedicarsi interamente alla nuova attività, così fu registrata alla camera di commercio la Cicli Rivola, con sede in via Amendola.
Per caratterizzare i telai Rivola, Chiesa fu il primo a ideare e perfezionare gli attacchi dei forcellini a “coda di rondine“, in breve tempo poi imitati da altri telaisti della zona e del nord Italia, nel modello Rivola Superleggera gli attacchi sono ulteriormente alleggeriti con un foro.
Nel settembre del 1971 si presentò davanti al negozio un ragazzo piccolo e dall’aspetto fragile, si trattava di Josè Manuel Fuente Lavanderia detto anche “el Tarangu”, corridore professionista della famosa squadra spagnola KAS, considerato uno dei migliori scalatori al mondo di quegli anni. In quel periodo si trovava in Romagna per disputare le ultime gare della stagione. Quel giorno, mentre si allenava sulle nostre strade, ebbe un guasto meccanico e capitò così per caso nel negozio di Rivola che, con grande tempismo, risolse il problema. Durante quell’incontro il piccolo scalatore spagnolo rimase colpito dalla professionalità dell’artigiano e di lì a poco gli ordinò una bicicletta speciale con caratteristiche particolari per affrontare le lunghe salite del giro d’Italia. La bici gli fu consegnata l’anno successivo direttamente nell’albergo dove alloggiava la squadra da Giovanni all’arrivo della settima tappa Iseo – Lido delle Nazioni, completa con il colore ufficiale della KAS ma senza marche. A quel tempo Giovanni non aveva un automobile e si fece quindi prestare un passaggio da un cliente che faceva il tassista per arrivare in tempo alla consegna. In quel Giro Fuente, in sella alla bici Rivola, vinse la 19ò tappa Andalo – Auronzo di Cadore, staccando corridori del calibro di Eddy Merckx e Gimondi.
Giovanni amava il suo lavoro e in particolare farlo senza troppa confusione o stress, le ruote ad esempio le finiva di assemblare di domenica chiuso nella propria officina, così da non essere disturbato da nessuno. A prova della sua padronanza tecnica come meccanico si possono ricordare diverse proposte, da parte di importanti marchia del ciclismo, di abbandonare l’azienda per approdare nel professionismo, come ad esempio l’offerta di incarico alla quadra Salvarani. Tutte le proposte, a prescindere dal prestigio dell’offerente, furono sempre rifiutate da Giovanni perché era consapevole che lavorare per i professionisti richiedeva tempi stretti e ritmi stressanti, cosa che andava in conflitto con il suo metodo fatto di grande attenzione anche ai più piccoli dettagli, con pazienza e senza pressione.
Nel 1978 Chiesa aveva ormai raggiunto l’età per la pensione e desiderava lasciare il lavoro. Fu così che Giovanni chiese al figlio Gianni di imparare a costruire i telai e sostituirlo in officina. Ovviamente non si trattava di una operazione semplice, per un mestiere così complesso serve una vera e approfondita formazione oltre ad un maestro di lunga esperienza.
Chiesa accetto quindi volentieri l’invito di Giovanni di passare il testimone al giovane Gianni e gli cedette tutte le attrezzature, maschere e piani di riscontro compresi. Per due anni si recò in corriere dai Rivola tre volte a settimana per insegnare al giovane Gianni tutto quello che sapeva. Dal 1978 e per circa quindici anni le biciclette firmate Rivola furono quindi completamente prodotte in famiglia.
Gianni mantenne in vita l’attività fino al 2005, adeguando l’offerta in base alla forte innovazione tecnologica di quei tempi, fino a quando chiuse l’officina per lavorare in un altro negozio. Con la chiusura dell’officina del “Maestro Rivola”, oltre alla perdita di un servizio importante per la comunità, venne a mancare anche quello che era divenuto il tradizionale punto di incontro per tanti appassionati di ciclismo, un luogo dove poter condividere animate discussioni sull’ultima uscita in bici o di quella che sarebbe venuta.
Come nella migliore tradizione dell’artigianato italiano, Giovanni Rivola ha saputo trasmettere la sua abilità ai figli Fausto e Gianni, il primo ancora oggi continua a costruire ruote perfette.
Gianni Rivola (2005):
“Quel periodo (1964) mi è servito per apprendere i primi rudimenti, che poi mi sarebbero serviti in futuro. Nel 1978 mio padre infatti mi chiese di lavorare con lui e imparare a fare i telai. Chiesa, che ormai era anziano e in pensione, mi avrebbe insegnato tutto quello che sapeva, accettai e presi un’altra officina. Ricordo ancora che Chiesa, in quel periodo, veniva da noi in corriera tre volte a settimana per insegnarmi il mestiere.
Il metodo che Che chiesa mi insegnò era ovviamente quello artigianale dell’epoca, ereditai da lui anche tutta l’attrezzatura tra cui un piano di riscontro realizzato da Patelli di Bologna.
La tecnica era quella della saldo brasatura con fucina a carbone di legno dolce per le saldature dello sterzo, del movimento centrale e del tubo sella, operazione che richiedeva circa un’ora e mezzo. Il carro e i forcellini venivano invece saldati a parte con fiamma ossidrica e Castolin perché la saldatura avesse maggiore resistenza.
Per un telaio finito impiegavo circa 20 ore, quasi tre giorni di lavoro. La curva della forcella la creavo con un uno stampo, scaldandola prima a mano e dopo aver già saldato i forcellini nel tubo del fodero, la piegatura doveva essere di 6-7cm e avveniva in 3 parti, si teneva conto nel farla della distanza tra il centro del movimento e quello dei mozzi che doveva essere di 4,3-4,5 cm nei telai più grandi e di 4 cm in quelli più piccoli, per dare maggiore stabilità al telaio e prima di tutto per non rischiare che il piede andasse a toccare la ruota; questa distanza viene tecnicamente definita REC e cambia leggermente a seconda delle idee del telaista. Sempre per lo stesso motivo per i telai grandi il tubo piantone lo saldavo con un’angolatura di 72,5°-73°, mentre per quelli più piccoli non era minore di 74°, le congiunzioni che utilizzavo erano della Cinelli mentre i componenti della Campagnolo.
Producevo 80/90 telai all’anno, il record di produzione l’ho avuto nel 1981 con 120 biciclette e la mia produzione totale è all’incirca di 1.000 telai, il costo di un prodotto completo negli anni ’80 era di 2.000.000 di Lire.”
“I nostri telai seppur in incognito hanno partecipato anche a competizioni internazionali. Il Giro d’Italia passava in Romagna proprio nei pressi del nostro paese. Quale non fu la sorpresa di mio padre nel trovarsi davanti il corridore José Manuel Fuente che ci chiese una riparazione per un guasto riportato durante la gara. Mio padre lo aiutò e Fuente rimase colpito dalla sua competenza di meccanico e costruttore. Dopo qualche tempo, quando già ci eviravamo scordati dell’episodio, ecco Fuente in persona presentarsi dalla Spagna per ordinare due telai: naturalmente poi non vennero marchiati con il nostro nome, perché il corridore era legato ad uno sponsor, ma per noi è stato motivo di grande soddisfazione sapere che tante gare sono state vinte in sella ad una nostra creazione.
Tra il 1991 e il 1992 mio padre cominciò a non stare più bene, e poiché aveva già una settantina d’anni decise di lasciare l’attività. Presi io il suo posto, ma nel 1995 ho dovuto lasciare perdere il lavoro di telaista, che ho affidato ad un collaboratore esterno e dedicandomi alle riparazioni in un altro negozio, poi nel 2005 accettai un impiego presso la SOMEC di Lugo”.
“Nei primi mesi certamente è stato un po’ un trauma essere assunto per la concorrenza. Ho lavorato trent’anni in proprio e un cambiamento del genere non è uno scherzo. Però so di aver portato con me il valore della mia esperienza e professionalità, e questo mi rende comunque fiero.
Oggi (2005 ndr) con me lavora anche Oscar Veneziano, il meccanico che ha seguito Pantani. Dover abbandonare l’attività che si è creata con le proprie forze dal nulla è doloroso ma si tratta di una circostanza determinata dal modificarsi del mercato, divenuto troppo concorrenziale per il piccolo artigiano. Ancora una volta la bilancia pende a favore dell’industria e della produzione in serie. Quello che si perde è il valore umano. Dietro ad una produzione artigianale c’è sempre innanzitutto una persona che segue il cliente non solo al momento della vendita, ma anche dopo. La dimensione dell’officina era bella perché si creava un rapporto a misura d’uomo, una conoscenza reciproca basata su momenti condivisi, su una comunione di interesse.
Ad esempio, io ero anche un ciclista oltre che un meccanico, quindi il mio parere era ascoltato più volentieri. Ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere posso dire che è un lavoro duro, ci sono poche possibilità di inserimento. Ma se un consiglio lo si può dare, è l’insegnamento di mio padre: la fretta non paga mai. L’approccio giusto ad un mestiere come questo è quello di una volta, che richiede dedizione e tempo prima di vedere i risultati. Io ho sempre seguito questi principi, e sono stato ripagato con grandi soddisfazioni”.









POGLIAGHI
POGLIAGHI
Milano 1948 – 1983
La versione aggiornata è disponibile su Quaderni Eroici / Get the complete version on Quaderni Eroici.
Fonti: “The custom bicycle” di Denise de La Rosa e Michael Kolin / “The legend of Pogliaghi” brochure Basso / Cicli su carta / Mario Camilotto web site / Marco Gianfelici / Brian Fessenden / Simone d’Urbino / “Tour” magazine 1983, 37 / Keith Larson

Nato il 23 settembre 1913 a Milano, Sante Pogliaghi fu una figura monumentale nel campo della costruzione italiana della bicicletta da corsa, uno dei costruttori più longevi e, con oltre 30 titoli olimpici, una pilastro nella storia del ciclismo.Il padre fervente socialista, che amava suonare il piano, leggere i giornali e discutere di politica, lavorò per un certo periodo come fattorino in bicicletta ma non vedeva di buon occhio che il figlio ci corresse. Al contrario, cercò di impedirglielo pensando che avrebbe danneggiato la sua salute e lo avrebbe ostacolato nell’intraprendere un lavoro più redditizio. Sante quindi doveva escogitare il sistema di farlo senza farsi vedere. Nascondeva così la sua preziosa bicicletta a casa di un amico fidato e la domenica mentiva al padre dicendogli che andava a ballare. La prima volta che vinse una gara ciclistica e tornò a casa con un trofeo e cinque lire d’argento, il padre gli strappò il diploma e lo colpì in testa con la coppa, ma gli lasciò i soldi. Nel 1924 Sante, all’età di 11 anni, entrò nell’officina dello zio Brambilla come assistente meccanico. Negli anni a seguire studiò sia disegno meccanico che economia aziendale. Nel 1935, finito il servizio militare lavorò come meccanico nel circuito europeo della 6 giorni. In quegli anni lo zio Brambilla lo mandò a fare esperienza come telaista in Legnano e Bianchi. Nel 1943, si unì ai partigiani nella lotta per la liberazione dalla dittatura nazi-fascista prendendo parte alle azioni militari sulle montagne intorno a Milano. Nel 1946 tornò a lavorare con lo zio, rilevandone l’attività pochi anni dopo.
1924-1961
Nel centro di Milano, tra l’Arco della Pace e il Castello Sforzesco in Via C. Cesariano 11, si trovava l’officina di Francesco Brambilla, zio di Sante Pogliaghi e leggendario costruttore di biciclette dal 1919 alla fine degli anni ’50. Brambilla corse in bicicletta come “indipendente” e arrivò a vincere il Giro di Lombardia. Nel suo negozio riparava biciclette, insieme a qualsiasi altra cosa concepibilmente meccanica, oltre a realizzare i suoi telai per bici da corsa. Al velodromo di Milano aveva un suo “box” dove offriva i suoi servizi ai corridori in pista.
Nei primi anni di lavoro in officina da Brambilla, come usava spesso a quei tempi, Sante lavorava senza paga. Due anni dopo, raggiunta la maggiore età, era già in grado di saldare i telai. Sante crebbe in questo ambiente stimolante, dapprima sbrogliando semplici commissioni per poi essere promosso ad apprendista, era il 1926 e aveva 13 anni. La sua “scuola” come diceva, nei primi anni era l’archiviazione ordinata di parti e strumenti. Quando nel 1947 Brambilla morì, Sante continuò il suo lavoro completando gli ordini già in essere e costruendo nuovi telai con congiunzioni e decals dello zio, continuandone quindi anche la numerazione. In quegli anni, forte degli insegnamenti di Brambilla, Sante maturò una propria visione di disegno e costruzione del telaio con elementi distintivi che diventeranno negli decenni successivi la sua firma stilistica. Intorno al 1951/52 era quindi pronto a marcare le biciclette da lui costruite (nei primi anni costruiti sia con le sue congiunzioni che con quelle Brambilla) stampando il proprio nome sul fregio Brambilla o sulle congiunzioni dello sterzo e inaugurando una nuova livrea. A fianco dell’impegnativo lavoro in officina continuò comunque gli studi frequentando le scuole notturne, dapprima studiando economia aziendale e poi formandosi come disegnatore e meccanico, acquisendo una cultura che si dimostrò poi fondamentale per il successo della sua carriera. Terminato il suo anno e mezzo di servizio militare nel 1935 iniziò a lavorare nel circuito europeo della 6 giorni come meccanico.
Nel 1941, all’età di 28 anni si sposò e, a partire sempre da quell’anno, cominciò a portare quegli occhiali dalla montatura spessa che in seguito divennero un simbolo del suo personaggio ma che soprattutto gli salvarono la vita, durante la guerra fu infatti esonerato dal servizio attivo a causa dei problemi di vista. Non mancò comunque l’azione in prima persona, unendosi ai partigiani socialisti che combatterono contro i nazi-fascisti sulle montagne intorno a Milano dal 1943 al 1945. Brambilla, vista la passione e il talento del nipote, in questi anni diede un ulteriore impulso all’esperienza di Sante mandandolo a imparare alla Legnano e alla Bianchi, i due più famosi marchi costruttori dell’epoca. Nell’immediato dopo guerra, Sante tornò a lavorare con lo zio. Nel 1947, come detto, acquistò l’attività e iniziò a costruire anche alcuni telai per altri costruttori a quel tempo più famosi, servendo nel frattempo i corridori su pista come meccanico.

Cicli Brambilla Milano, 1919
“Qui in via Cesariano abitava mio zio Brambilla. Era severo con me, il mio apprendistato con lui è stato duro ma mi ha insegnato che vernici e diluenti non sono un odore sgradevole ma il profumo femminile nella nostra professione. Se volevo allenarmi con la mia bici, mi porgeva una lima e commentava che non ci si guadagnava da vivere pedalando da soli. La vita con lui mi aiutato, avevo molte domande e lui aveva molte risposte. Oggi tutto è cambiato. In ogni caso sono contento che la vecchia casa di mio zio a Milano non sia stata vittima dell'escavatore e sia sopravvissuta fino ad oggi"
— Sante Pogliaghi
TIMELINE NUMERAZIONE TELAI A parte i casi databili attraverso il tipo di congiunzioni non è stato possibile attribuire un anno preciso ad ogni esemplare. Un telaio poteva essere saldato, verniciato e montato a cavallo di due anni diversi e nel caso di telai esportati la forbice temporale può essere anche più ampia. L’approssimazione riportata in tabella è quindi di circa un anno. Per la datazione si è tenuto conto del fatto che fino alla prima metà degli anni ‘70 Pogliaghi costruiva circa 100 telai all’anno, (dal 1974 la produzioine è incrementata fino a circa 200), della tipologia di congiunzioni e decals e delle dichiarazioni di datazione come ad esempio la data di acquisto. Dagli telai ritrovati è verosimile che Pogliaghi abbiamo iniziato una propria numerazione verso la fine degli anni ’40, poi abbandonata nei primi anni ’40 per proseguire la numerazione dello zio Brambilla. Sono noti alcuni esemplari costruiti da altri artigiani marcati Pogliaghi, in particolare negli anni ‘40 e ‘50.

Pogliaghi strada N. 29, probabilmente fine anni ’40. Marcato “Pogliaghi” sulla congiunzione sterzo e numerato “29” sotto la scatola del movimento centrale.
Costruito con congiunzioni Brambilla, particolari inusuali il design della testa forcella a “slooping” e non a testa piatta e l’assenza di rinforzi nei foderi della forcella.
Foto collezione privata Simone d’Urbino.
Pogliaghi strada del 1960 n. 7063. restaurata. Foto Frameteller. Galleria foto completa qui.

BOB BERGHINO
Giovanni Bob Berghino e sua moglie Gilda migrarono in USA negli anni ’20. Bob aprì un negozio di biciclette nell’Upper West Side di Manhattan dove rivendeva biciclette da corsa Brambilla. Negli anni ’40 si trasferirono a Beverly Hills dove aprirono un nuovo negozio chiamato Bob’s Cycles, dove acquisì la fama di miglior venditore di biciclette della città. All’inizio degli anni ’60 Berghino importava biciclette Pogliaghi alle quali aggiungeva le sue decalcomanie “Berghino Specials” lasciando però la decalcomania “Pogliaghi” sul tubo obliquo (forse in virtù di un accordo con Sante).
Bob Berghino allenò alcuni dei migliori corridori americani dell’epoca, tra cui Bob Tetslaff che partecipò alle Olimpiadi del 1960.
1962-1983
Nel 1962-63 compare per la prima volta il ‘PSM’ e poi l’alleggerimento delle congiunzioni a forma di piccolo rombo e Pogliaghi interrompe la produzione di telai per conto terzi. Le congiunzioni utilizzate a quei tempi, allo stato grezzo erano molto più rozze di quelle disponibili a partire dai primi anni ’70, prodotte con la tecnica della microfusione che uniformarono la qualità media dei telai sul mercato, e venivano lavorate a mano per rispondere alla qualità voluta.
In officina costruiva principalmente telai da pista e corsa su strada, ma il palcoscenico internazionale del velodromo Vigorelli non era lontano dal negozio e la sua specialità divenne il tandem da competizione su pista, per il quale utilizzava tubi oversize personalizzati che gli venivano forniti dalla Durifort insieme a congiunzioni speciali da lui stesso disegnate e costruite interamente a mano di diametro allargato. Per la costruzione dei telai da strada Pogliaghi usava tubazioni Reynolds e Columbus, dalla metà degli anni ’70 anche Ishiwata e Tange, per i pista preferiva i tubi leggeri della Falck. Per i componenti Campagnolo si riforniva da Rossignoli di Milano. Fino alla prima metà degli anni ’70, nel suo piccolo negozio-officina, costruiva da solo circa 100 telai all’anno, la qualità del suo lavoro era già molto apprezzata e giovani costruttori, sia dall’Italia che dall’estero, aspiravano di poter fare l’apprendistato nella sua officina. Sante si occupava sempre in prima persona della brasatura essenziale di ogni telaio, anche negli anni di maggiore produzione, aiutato da altri collaboratori, non arrivò mai a realizzarne più di 200 all’anno.
Nel catalogo Pogliaghi Italcorse di quegli anni erano presentati quattro modelli da pista: sprint, pursuit, stayer e tandem, e due modelli stradali: road race e time trial.
Sante ha costruito molto per la pista, le biciclette per Montreal o Rocour, su cui Faggin è diventato campione del mondo, sono arrivate dalla sua officina. I giapponesi le hanno pesate: 4,25 kg.
CICLI POGLIAGHI 31 VOLTE CAMPIONE DEL MONDO
Lista sintetica di alcuni dei professionisti che hanno corso con biciclette Pogliaghi.
Eddy Merckx
Francesco Moser
Giuseppe Saronni
Fabio Casartelli
Moreno Argentin
Gianni Sartori
Sante Gaiardoni
Gordon Jhonson
Nelson Vails
Jaques Anquetil
Roland Königshofer
Gianni Bugno
Danilo Di Luca
Enrico Gasparotto
Giovanni Visconti
Leandro Faggin
Giuseppe Grassi
Mino De Rossi
Fritz Pfenninger
Albert Fritz
Gabriele Sella
Sue Norara-Reber

6 giorni Amsterdam, Fritz Pfenninger (sinistra) con bici Pogliaghi, 8 dicembre 1967

Gordon Johnson (a destra) aiuta Sante Gaiardoni su bici Pogliaghi durante una 6 giorni.
“Mi avvicinai a Sante Pogliaghi, vecchio costruttore, uomo semplice ma di grande umanità e saggezza, cresciuto in un’epoca non consumistica, che nel tempo aveva realizzato se stesso. Capii che avevamo molto in comune e che potevo con lui imparare a lavorare con passione”
— Mario Camillotto
Dal 1974 cominciò ad assumere collaboratori, tra i quali ricordiamo Antonio Trevisan, Camilotto, Sambruna e Freschi, fino ad arrivare a una squadra di 6 elementi nel 1979. I telai erano saldati a mano con la tecnica della brasatura senza l’uso della maschera (dima), e per mantenere allineati i tubi con le congiunzioni, questi venivano bloccati con la “puntatura”. Pogliaghi utilizzava la maschera (dima) solo quando doveva costruire molti telai delle stesse dimensioni, ma generalmente, anche grazie alla sua lunga esperienza, preferiva poter lavorare a mano libera. Questo perché riteneva che quando i tubi sono bloccati dalla maschera il telaio può ricevere sollecitazioni indotte dal calore della saldatura, provocando poi distorsioni in fase di raffreddamento. Contrariamente alla normale pratica, Sante costruiva il telaio unendo prima il tubo sella al movimento centrale e quindi il tubo sella al tubo orizzontale. Dopodiché univa il tubo obliquo al movimento centrale e terminava il triangolo principale saldando il tubo sterzo. Per saldare i telai individuali utilizzava il gas naturale, mentre per i tandem con tubi a diametro maggiorato preferiva il gas propano, in generale preferiva comunque il primo perché limitava del 50% la perdita di carbonio in fase di riscaldamento del tubo. Per la brasatura utilizzava il prodotto svizzero Castolin, con un contenuto d’argento di circa il 40% e una elevata fluidità, una bassa temperatura di brasatura e una buona resistenza. Utilizzò anche altri materiali per brasatura con un contenuto d’argento più elevato, ma si dimostrarono troppo liquidi per completare in modo efficiente le sue tecniche di costruzione. Piuttosto che concentrarsi sulla precisioni di angoli specifici privilegiava il rapporto di dimensione tra i tubi orizzontale e verticale. Come regola generale, sui telai di medie dimensioni, il tubo orizzontale non doveva mai essere più lungo di 2 cm del tubo piantone, per evitare che la bicicletta risultasse sproporzionata e meno performante in corsa. Alla fine degli anni ’70 Pogliaghi smise di utilizzare congiunzioni o movimenti ottenuti per fusione perché rendevano il telaio troppo rigido e soggetto a rottura dei tubi. Tuttavia, mantenne la testa della forcella in ghisa fusa per renderla più rigida e consentire una migliore maneggevolezza. Tutti i telai Pogliaghi erano erano verniciati da fornitori esterni e la qualità della cromatura, a suo giudizio, non doveva essere realizzata usando acido solforico per non rischiare di indebolire le tubazioni. Durante la sua lunga carriera Sante Pogliaghi fu uno dei più rispettati telaisti italiani, modello e, in alcuni casi, maestro di grandi nomi della generazione successiva. Una delle sue abilità era valutare le reali esigenze del ciclista. Costruì telai per importanti corridori come Sercu, Merckx, Faggin, Baghetto, Nunzi e Rossi e più di 35 professionisti vinsero titoli mondiali usando i suoi telai, di per sé un record mondiale. Alla domanda sulla ragione del suo successo Sante rispondeva spesso sottolineando la sua passione per la bicicletta e per il suo lavoro. Pogliaghi si ritirò in pensione nel 1983 quando la numerazione dei telai era arrivata a circa 12700. Vendette l’attività alla Basso e sei anni più tardi il marchio fu acquistato dalla Rossin. Sante morì nel 2000, a 87 anni.

Fine anni ’80, Sante in officina con Alcide Basso
Serie “speciale” seconda metà anni ’60.
Pogliaghi pista del 1966, n. 7803 conservata.
Il telaio sembra far parte di una serie speciale di telai realizzata nell’officina Pogliaghi nella seconda metà degli anni ’60. Tutti i telai hanno in comune congiunzioni più Nervex più vecchie, forcellini forati e il disegno unico degli svuoti di movimento centrale, nodo sella e congiunzioni.
IL DESIGN DEI TELAI POGLIAGHI
Sul finire degli anni ‘40 Pogliaghi costruiva i propri telai impiegando ancora le congiunzioni ereditate da Brambilla. Nei primi anni ‘50 iniziò ad imprimere il proprio stile personale cambiando il design della testa della forcella, mantenndo comunque fino agli anni ‘70 il modello a testa piatta prodotto dalla Fischer.
PENDINE E TESTA FORCELLA
La forma delle testa delle pendine rimase simile a quella dello zio fino alla metà degli anni ‘70 quando Sante ne allungò la forma e aggiunse il suo simbolo. Dal 1984 la Basso cambiò sia la forma della testa delle pendine che il carattere tipografico del logotipo.
NODO SELLA "FASTBACK"
A partire dalla metà degli anni ’60 alcuni telai Pogliaghi erano costruiti con un particolare nodo sella con le teste delle pendine forate e saldate sulla parte posteriore del tubo pianto per accogliere un bullone passante. Il disegno fu creato internamente e per la produzione fu scelta l’azienda SIlva.
FREGI
I primi telai Pogliaghi, erano marcati con fregio in metallo Brambilla o con una versione dello stesso ma personalizzata con l’aggiunta del suo cognome. Successivamente il fregio venne sostituito da decalcomanie, le prime mostravano un globo tra rami di alloro, mentre a fine anni ‘50 ricomparse la grafica di Brambilla ma con “BSA” sostituito da “PSM” (Pogliaghi Sante Milano), affiancato a “Italcorse”. Negli anni ‘70 comparse un nuovo marchio dove le iniziali SP davano vita ad un nastro tricolore. Nell’ultima generazione di decals, dalla fine degli anni ‘70 ai primi ‘80, vennero celebrate le medaglie olimpiche vinte da corridori con bici Pogliaghi.
SCATOLE MOVIMENTO CENTRALE
Fino alla fine degli anni ’60 Pogliaghi impiegò le scatole in ghisa prodotte dall’azienda svizzera Georg Fischer, chiuse e senza alleggerimenti. La lettera “G” punzonata indicava una scatole per telaio da pista, mentre il nome era quello del ciclista.